Da oggi vestiamo i panni di Shahrazād e vi sussurriamo storie per la sera come a un sultano a caccia di favole. Il primo racconto che ci arriva si chiama Perdono, la prima sussurratrice di storie Francesca Cerutti. Buona lettura.
Perdono
Quando spengo la macchina trattengo il respiro e chiudo gli occhi. Non esco subito, ho bisogno di pensare agli eventi dell’ultima ora.
La telefonata di Diego.
Io che faccio inversione di marcia e decido di non rientrare a casa.
Mi torna in mente una frase letta da qualche parte un po’ di tempo fa: Ci sono notti che non accadono mai. Non ricordo di chi sia, so solo che questa notte è esistita tante di quelle volte finora, ma solo nella mia testa. Doveva essere una notte che non sarebbe accaduta mai, sta accadendo. Non so cosa aspettarmi.
Riapro gli occhi. Diego è davvero fuori dalla mia macchina.
«Ciao».
«Ciao, Anna».
Chiudo la portiera, mi guardo intorno. Non capisco perché mi ha chiesto di incontrarci in un parcheggio fuori dall’Idroscalo.
«È successo qualcosa?».
«Più o meno. Posso?». Accenna a sedersi sul cofano della mia macchina; non me lo aspettavo ma non gli dico di no, anzi, lo imito. Le nostre mani non sono mai state così vicine.
«Venivo sempre qui ai tempi del liceo, quando litigavo con i miei. Salivo sul motorino e venivo qui a guardare gli aerei».
Avevo dimenticato che l’aeroporto di Linate era proprio qua dietro. Sorrido mentre mi immagino un Diego sedicenne, che esce di casa sbattendo la porta, si allaccia il casco e viene proprio qui, a farsi cullare dal rumore degli aerei che decollano. A chiedersi dove sono diretti. A sognare di comprarlo pure lui, un biglietto, per poi non comprarlo mai.
«Non ti facevo uno che scappava a guardare gli aerei».
«Tu non sai i litigi che facevo con i miei genitori. Di solito andavo da un mio amico, ma quando avevo soltanto voglia di stare da solo venivo qui».
«Perché mi hai chiesto di venire?».
«È stata una giornata pesante».

Ripenso alla mia, di giornata. Ho parcheggiato sotto casa di Riccardo, sono andata al cinema con lui, poi abbiamo vagato un po’ per le vie del centro, siamo saliti sul 16 e siamo tornati da lui. Abbiamo fatto l’amore, come da due mesi a questa parte. Stavo tornando a casa quando, a metà di corso di Porta Romana, mi è squillato il telefono. Ero sicura che fosse Riccardo che mi diceva che avevo dimenticato qualcosa da lui. Invece era Diego. Non mi aveva mai telefonato. Ho accostato, gli ho risposto, ora sono qui.
«Perché è stata una giornata pesante?».
«Sono stato a pranzo dai miei e nel pomeriggio siamo finiti a discutere come quando ero un ragazzino. Non succedeva da anni».
«Sono invadente se ti chiedo come mai?».
«Non credono in quello che faccio, forse non ci hanno mai creduto. Mi confrontano con i figli dei loro amici, stando a loro non sbagliano mai un colpo. Non riesco a dirgli che così mi fanno sentire un fallito». Un aereo plana sopra di noi. Senza accorgermene avvicino la mia mano sinistra alla destra di Diego; le mie dita cercano le sue.
«Non sei un fallito. Anche se forse non è da me che vuoi sentirtelo dire».
Le sue dita si intrecciano alle mie. Da quando è cominciata la mia storia con Riccardo mi sono ripromessa di non pensare a Diego. Alla fine mi sono limitata a non cercarlo, nemmeno quando avrei voluto; i pensieri, invece, non li controllavo così bene. I sogni neppure.
«Va bene anche sentirmelo dire da te. Grazie per essere venuta, spero di non averti disturbata».
«Non mi hai disturbata. Stupita, semmai. Ho pensato che avessi sbagliato numero, se devo essere sincera».
«Io mi sentirò un fallito, ma neanche tu hai tutta questa considerazione di te».
Non rispondo. Da tre anni amo contro ogni logica una persona con cui, per la cronaca, ho condiviso solo discorsi meravigliosi davanti a cappuccini. Non c’è mai stato nulla di vero, ammesso che sogni e pensieri non lo siano. Potevo aspettarmi solo che mi chiamasse per sbaglio, a maggior ragione in una sera di fine estate. Chiunque ha di meglio da fare in una sera di agosto.
«Non mi avevi mai chiamata».
«Cercare una persona e pensarla sono due cose diverse».
«E comunque non mi hai detto perché mi hai chiesto di venire».
«Perché questo posto è stato solo mio per dieci anni buoni. E se non lo condividevo con qualcuno soffocavo».
Annuisco piano. Mi sta mostrando qualcosa di ben più intimo di ogni notte con Riccardo, e dovrò averne cura.
«Grazie per averlo condiviso con me, allora».
«E con chi dovevo condividerlo, Anna?».
Stavolta un aereo atterra, nel bel mezzo di questa dichiarazione – perché è una dichiarazione. La nostra è una storia liminare, da tre anni al limite tra il potenziale e il reale. Siamo due persone a cui è mancato il coraggio di renderla reale, forse per paura di non essere ricambiate davvero. Almeno, nel mio caso è andata così. Non so di cosa aveva paura Diego, ammesso che avesse paura di qualcosa.
«Ora va meglio?».
«Abbastanza. Anche se la sensazione di non essere come i miei avrebbero voluto non se ne va».
Posso solo continuare a stringergli la mano. Qualunque parola suonerebbe falsa. Non sa niente di me e Riccardo; se lo avesse saputo, non mi avrebbe chiamata, lo so. Non gli dirò niente neppure stasera.
«Dopo posso portarti io in un posto?».
Saliamo nella mia macchina, lì per lì chiude male la portiera. Sospira mentre la richiude, so che odia questi suoi momenti di goffaggine davanti a me. È buio, ma sono sicura che sia arrossito. Metto in moto. Per diversi chilometri non apriamo bocca. Lui ha la fronte incollata al finestrino, è perso nei suoi pensieri; io mi rivedo nel letto di Riccardo, una manciata di ore fa. Sarei ipocrita se dicessi di non provare nulla per lui. Non so se è amore, ma non è nemmeno il nulla. Mi ha baciata una sera di tre mesi fa, il sentimento che provavo – qualunque fosse – mi faceva stare bene. Ho deciso di dargli, dopotutto, una possibilità.
Però lui non è Diego.
Faccio a ritroso tutta la strada di prima. Passiamo sotto casa di Riccardo, senza che Diego lo sappia. Chissà se in tutto questo tempo pure lui ha dato una possibilità a una donna.
Ci lasciamo alle spalle il centro, iniziamo a scorgere i grattacieli di Porta Nuova, sempre più vicini. Scintillano come l’ultima volta che li avevo visti.
«Era questo il posto dove volevi portarmi?».
«Sì. L’ho evitato per anni».
«Non ti piacciono i grattacieli?».
«Sono stupendi».
Scendiamo dalla macchina, saliamo adagio le scale che portano verso piazza Aulenti. Siamo praticamente soli. Ogni giorno centinaia di persone affollano questo posto, corrono da un grattacielo alla fermata di un tram, mangiano un panino al volo a pochi metri da qui, concludono affari. Questo posto brulica di vita, ma non alle tre di una notte di agosto. Ad agosto la città si spopola, Porta Nuova ancor di più. Ci sediamo sul bordo della fontana di piazza Aulenti.
«Non lo avrei mai detto, ma sono qui e sono felice».
«Perché hai evitato questo posto per anni?».
«Perché non l’ho mai perdonato. Ero seduta proprio dove sei tu quando ho saputo che mia madre aveva la leucemia. È strano: in un attimo ti ripugna la sola idea del posto dove è franato tutto, ti ripugnano questa fontana, questi grattacieli, e fai di tutto per evitare di tornarci».
L’ho detto. Erano cinque anni che me lo tenevo dentro. Diego mi mette una mano in fondo alla schiena, sui lombi. Non glielo dico, ma è un gesto che mi è sempre piaciuto molto. È quasi più intimo di un bacio. Ne diamo tanti, a volte senza troppa convinzione. Ma quella mano, proprio lì, che sembra dire ti sorreggo, non la allunghiamo spesso. Anzi.
«Sei coraggiosa, Anna».
«Non c’è nulla di coraggioso nell’evitare un posto per anni».
«Ma sei coraggiosa a essere qui adesso».
Non so se è davvero così. Non rispondo. È solo che al parcheggio dell’Idroscalo, mentre Diego si metteva a nudo, ho pensato che stanotte dovevo mettermi a nudo pure io e perdonare questo luogo. L’unico modo per perdonare un luogo dove abbiamo sofferto è imporci di tornare e darci il permesso di sentirci bene. Perfino di essere felici.
«Tu lo hai perdonato il parcheggio dell’Idroscalo?».
«Poche ore fa».
Penso all’adolescente che si sente inadeguato e fugge a guardare gli aerei, sovrappongo la sua immagine a quella della ragazza a un passo dal perdere sua madre. Io e Diego restiamo due adulti irrisolti, ma da stanotte i ragazzini che eravamo se ne sono andati. Li abbiamo lasciati andare.
Ci sono notti che non accadono mai. Era il primo verso di una poesia di Alda Merini, mi è tornato in mente solo ora. E poi ci sono notti insperate che accadono e fanno la rivoluzione.