Una memorabile performance del trio svizzero al Bologna il 18 ottobre
Martellanti, fragorosi ma al tempo stesso chirurgici. E soprattutto attesi. Il ritorno degli Young Gods in Italia ha coinciso con alcune ricorrenze che hanno reso il concerto particolarmente allettante. In primis il quarantennale. È vero che una formazione sgusciata dalla lunga e articolata nidiata post-punk dovrebbe fregarsene di corsi e ricorsi storici, ma la memoria del contemporaneo è così sovraccarica da avere necessità di soffermarsi su date ed eventi significativi: a quarant’anni dalla costituzione e dall’incisione del primo singolo Envoyé! che sarebbe uscito nei primi del 1986, è bene ricordare la nascita di una formazione così influente e seminale, ancora attiva e determinante. Una cult band nel vero senso del termine.

Il secondo tassello riguarda l’Italia: il trio svizzero non suonava nel nostro paese dall’aprile del 2019, dal tour di Data Mirage Tangram, la riapparizione dopo anni di silenzio. E a proposito di ritorno, gli ottimi esiti dell’ultimo Appear Disappear, che ha consegnato al pubblico internazionale un’ispirazione connessa direttamente alle origini industrial, non potevano non essere testati dal vivo. Terzo motivo della grande curiosità con cui è stata accolta la loro performance al Link 2.0 a Bologna sabato 18 ottobre.

Dopo una algida e serrata introduzione elettronica da parte degli XNX, il duo di Cristiano Santini (Disciplinatha/Dish is Nein) e Federico Bologna (Technogod/Ohmega Tribe), abbiamo trovato Franz Treichler, Cesare Pizzi e Bernard Trontin in forma smagliante. Personali come sempre, abili nel presentare gli elementi chiave della loro proposta, rafforzati da un light show suggestivo, in linea con i saliscendi dinamici del loro industrial-rock, hanno incentrato il concerto prevalentemente su Appear Disappear.
In una scaletta di quindici pezzi, otto provengono dal nuovo album, e ciò ha un senso che va al di là delle motivazioni promozionali: Systemized, Blackwater, Off The Radar e Hey Amour hanno una fortissima personalità sonora, capace di mettere in evidenza l’unicità di questo avant-rock compatto e carismatico, nel quale gli estremi – la meccanicità e la spiritualità, la pressione sonora della macchina e la visceralità emotiva dell’umano, la densità ritmica e la freddezza digitale – convivono in una simbiosi impenetrabile. Eppure ancora affascinante, probabilmente perché percepita dal pubblico come la effettiva materializzazione di certe intuizioni visionarie e distopiche, tra sampler e distorsioni metalliche, che gli Young Gods ebbero decenni orsono.
Accanto agli ultimi brani non sono mancati vecchi classici come She Rains e Gasoline Man, in una convivenza che ha annullato il tempo mettendo al centro un sound apocalittico, deflagrante, mai così presente.
