L’hype attorno a Playlist è stato surreale da prima che venisse annunciato. Una campagna marketing perfetta, dai video su Instagram alle comparsate da barbone in Duomo, che hanno elevato Playlist ad album dell’anno prima ancora che uscisse. Come spesso accade, l’arma a doppio taglio che è l’hype sta proprio in uno dei significati di questo termine: “montatura”. L’hype spesso è una torre di dimensioni gigantesche, che lascia presupporre allo spettatore di trovarsi davanti a un tesoro unico e che poi spesso si rivela una grossa delusione. Playlist si presenta in maniera strana, certamente non convenzionale. È un prodotto impacchettato troppo a dovere perché appaia subito sciatto, o meglio dire… superficiale. Si presenta con una copertina – e soprattutto un titolo – che suonano volutamente superficiali, alludendo a una sequenza di canzoni senza un reale senso logico più che a un vero e proprio album (sulle orme di More Life di Drake). Tutto lasciava comunque presagire una sorpresa da parte dell’artista sardo Salmo, un album fortemente antitetico in rapporto alle sue premesse apertamente provocatorie. Invece no: Playlist è un album che suona purtroppo, e non volutamente, superficiale.
È difficile spiegarsi come l’album del rapper migliore della scena abbia evidenti stonature nella bassline di ben due pezzi, STAI ZITTO e RICCHI E MORTI; ed è altrettanto inspiegabile la totale assenza di corposità nelle percussioni di DISPOVERY CHANNEL. Questi sono errori tecnici che in un album privo di alcun concept acquistano un peso notevole, e che restano sicuramente inaccettabili in una release di questo calibro. Inutile negare che il disco vanta delle tracce molto interessanti. CABRIOLET, ad esempio, è un esperimento molto ben riuscito, una sorta di pop-rock-trap molto orecchiabile, ma HO PAURA DI USCIRE non è da meno, a conti fatti il pezzo più realizzato fra tutti: un ibrido di house e samba estremamente ballabile e incalzante. Tra le chicche del progetto i featuring che, pervasi da una stimolante aura di mistero, forniscono tutti un grande contributo: rientra il liricismo di Lebon, come sempre ricco di allusioni e metafore, ma stavolta più concettuale e introspettivo del solito. A tratti critico e dissacrante, a tratti addirittura romantico, emerge soprattutto in LUNEDÌ, una “rap ballad” sulle orme di XXXTentacion (come dichiarato dallo stesso Salmo) in cui l’artista descrive la propria vita con la disperazione di chi si trova davanti ad un vicolo cieco. Molto efficace.
È un peccato che gli aspetti positivi si perdano in esperimenti riusciti a metà o canzoni semplicemente poco efficaci, come l’inutile TIÈ, che se avesse avuto un testo, sarebbe stato questo: “Guarda che bravo che sono, metto una strumentale rock di 1:30 in un disco hip hop, sono proprio ribelle”. Anche PXM e ORA CHE FAI si annoverano tra gli esperimenti incompleti, il primo entrando a pieno titolo nel confusionario tifone rock del disco e il secondo che, pur essendo “uno dei primissimi brani footwork in Italia” su stessa dichiarazione di Salmo, si perde in sonorità tutt’altro che ben rodate. Le critiche si sprecano sulla forzatissima, stereotipata e insipida IL CIELO NELLA STANZA che, oltre a registrare la presenza dell’unico featuring trascurabile di tutto l’album, è scritta in una maniera tremendamente blanda, che si parli della musica o del testo.
In sostanza Playlist è un album frazionato in tre parti: un terzo di sperimentazione, un terzo di consistenza e un terzo di superficialità, che purtroppo finisce per inficiare il lavoro nella sua totalità. È un album che suona come una bozza, fatto com’è di tante buone idee ma di troppe imperfezioni. Col senno di poi, sarebbe stato preferibile un disco di cui parlare per anni, non una campagna pubblicitaria.