Sono due le cose che mi hanno colpito di Sandro Joyeux, prima di conoscerlo, il sorriso e l’impressione di non riuscire ad identificarlo, etichettarlo, a dargli un’età. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima eppure in quell’espressione perenne, che non è divertimento – chiariamoci bene- egli è in grado di comunicare, a chi ha di fronte, tutto il bagaglio di esperienze che lo hanno portato ad essere quello che oggi è diventato.
Sandro Joyeux è un musicista vagabondo, nel vero senso della parola, perché nasce in Francia ma si sente italiano nella stessa misura in cui si sente africano. La stampa lo chiama il “griot bianco” perché oltre a parlare italiano, francese, inglese e arabo conosce alla perfezione alcuni dialetti dell’Africa Nera (il Bambarà, il Wolof, il Dioulà).
Dopo aver ascoltato il suo cd al ritorno da svariati concerti estivi, improvvisando improponibili coreografie a tempo di raggae e world music, ci ritrovammo fan accaniti di Sandro Joyeux e una splendida serata di fine agosto ci portò dritti dritti ad una tappa del suo ultimo tour “ Fuori dal ghetto”, tenutosi appunto all’interno del ghetto di Rignano. La cosa ci sembrò molto strana al punto che ci indusse a raggiungere il luogo del live nel più breve tempo possibile. Arrivammo con ritardo, data la mancanza di segnaletica stradale, ma ci trovammo subito catapultati in un luogo collocato nel posto sbagliato, eravamo in Africa persi tra i bazar e le botteghe alimentari,i macellai e gli artigiani; era una festa e noi eravamo gli ospiti che non aspettavano. Già, perché la sensazione di stupore che ci pervase quando entrammo fu la stessa che ci lasciò alla fine del concerto: eravamo estasiati, avevamo aperto un mondo, non volevamo lasciarlo e non avremmo mai dimenticato quello che abbiamo visto. Ragazzi, nostri coetanei, tutti braccianti, lavoratori sfruttati e sottopagati che tutto il giorno si spezzano letteralmente la schiena che ballavano con noi e cantavano divertiti i testi di Sandro Joyeux. Percepivamo la loro felicità e il loro stupore nell’assistere al nostro arrivo ma sembravano volessero dirci che quella era il luogo in cui loro vivevano, il posto in cui si era formata una comunità, dove erano ammassate le stesse tende che tutte le notti li accoglievano al ritorno dal lavoro sui campi.
Sono storie tristi quelle che canta Joyeux, come quella di Elmando (il suo ultimo singolo), ma hanno un ritmo allegro e spontaneo come il messaggio sociale che le stesse diffondono riuscendo nel tentativo di usare la musica per far conoscere un mondo che appare lontanissimo dal nostro, ma che forse dovremmo imparare a conoscerlo per innamorarci perdutamente.
A distanza di mesi è difficile dimenticare quello che abbiamo visto. La gioia di un ventenne che manda foto del concerto ad un suo parente lontano, i ragazzi che conquistano il palco vivendo solo per poche ore la loro età e il nostro rammarico e dispiacere nel tornare a vivere le nostre vite con la sensazione che non facciamo ancora abbastanza per cambiare la situazione. Il suo messaggio politico e sociale è tutto racchiuso nella sua musica, basta solo saperla ascoltare.
a cura di Rossella Giordano