È il Locomotiv di Bologna ad ospitare la prima, attesa data italiana di Sharon Van Etten, in occasione della tournee ad accompagnamento del riuscito “Are we there”.
Il compito di aprire la serata spetta a Marisa Anderson e alla sua Stratocaster, con la quale propone un repertorio che, tra brani originali e standard, punta dritto verso il delta del Mississippi, l’unico luogo al mondo dove possono convivere il puro gospel dei primi Staple Singers, lo sporco blues di Rev. Gary Davis o John Fahey, nonchè quel pizzico di distorsione aggiunto in tempi più recenti da gente come Seasick Steve e Jerry Garcia. La chitarrista di Portland è uno di quei rari casi in cui, nonostante una tecnica non eccezionale, ogni nota trasuda onestà e, soprattutto, cultura. Ed è interessante sentirle raccontare del suo conflitto interiore nell’affrontare il repertorio tradizionale americano, tanto affascinante quanto spesso utilizzato come strumento di proselitismo religioso e patriottico. (Qui potete ascoltare in streaming qualche brano)
E c’è molto di “Americana” anche nel live di Sharon Van Etten, che sale sul palco poco dopo le 11, accompagnata da una band di quattro elementi. Le batterie elettroniche e i synth che arricchiscono “Are we there”, e che rappresentano la sostanziale novità rispetto agli album che lo hanno preceduto, vengono di fatto dimenticati dal vivo, dove a prevalere è un sound molto “analogico”. A farla da padrone sono le chitarre intrise di tremolo e riverbero e, soprattutto, la voce di Sharon Van Etten: tanto unica nel timbro quanto capace di muoversi tra il sussurro e il lamento come solo PJ Harvey, nel bene e nel male, riesce a fare. Se nei primi due brani della serata, Afraid of Nothing e Taking Chances, la cantante del New Jersey sembra dover ancora prendere le misure e la necessaria confidenza, e la versione live di Tarifa patisce non poco l’assenza dei fiati, le cose ingranano appieno con Save yourself.
Le armonie vocali, la chitarra acustica, la sezione ritmica che lascia tutto lo spazio al piano rhodes di contrappuntare: questo semplice brano, più che da “epic” (2010), sembra provenire dritto da “Flying Burrito Brothers” di Gram Parsons (1969). E, di conseguenza, in questo brano non si possono non percepire le influenze di tutti quegli artisti che, come i Wilco o, in un certo modo, la Norah Jones prodotta da Danger Mouse, hanno preso sulle proprie spalle e spinto nel nuovo millennio il progetto di “Cosmic american music” di Parsons: creare un ideale punto di contatto tra le quattro principali tradizioni del profondo sud dell’America: country, blues, folk, e rock.
Seguono una dopo l’altra l’inedita Let you down, “troppo allegra” per poter essere inserita nel funereo, ultimo album, ispirato alle vicissitudini sentimentali della cantautrice, Break me, PJHarveyana fino al midollo, due ottime versioni di Give out, da “Tramp”, e Tell me, prima che la band abbandoni il palco alla sua leader, sinceramente sorpresa di trovarsi di fronte ad un pubblico così numeroso, quasi che l’aver suonato da Letterman o il fatto che il suo disco sia tra i migliori cinquanta dell’anno persino secondo l’ultraconservatore Rolling Stone (Bruce Springsteen e U2 nella top ten…) non significhi nulla.
Dopo la bellissima ballata folk Life of his own, in cui le splendide armonie vocali con Heather Woods Broderick riportano alla mente i primi Everly Brothers, Sharon, ora sola sul palco, si lancia in una cover di Perfect Day, che non aggiunge molto all’originale (e alle centinaia di rielaborazioni che ne sono seguite), ma che viene particolarmente apprezzata dal pubblico, un po’ perché Lou Reed è sempre Lou Reed, un po’ perché effettivamente quella voce potrebbe, come vuole il cliché, “cantare l’elenco telefonico” e ricevereuna standing ovation perfino al compianto Maurizio Costanzo Show. E non so per quale motivo in questi casi mi ritorna sempre in mente la gag di Gassman che legge gli ingredienti dei frollini.
Ritornata la band sul palco, un po’ sottotraccia, va detto, e composta, tra gli altri, da Darren Jessee, ex-Ben Folds Five, alla batteria e da Brad Cook, bassista e sodale di Justin Vernon (santo protettore dei portatori di barba) nei Megafaun, il set principale prosegue con Don’t do it, che non è una cover della Band e avrebbe potuto trovare benissimo il proprio posto nella colonna sonora di una qualsiasi teen series che hanno reso indimenticabili(!) gli anni ’90 (domanda: quanti gruppi continuano a suonare in giro soltanto perché una loro canzone è finita su O.C.?), per poi chiudersi con una versione a dir poco marziale dell’autolesionistica Your love is killing me e quella Love more che il sopracitato Justin Vernon aveva ripreso per i suoi Bon Iver.
Nel bis, dopo un improbabile momento di freestyle hip-hop improvvisato e un po’ buonista (“we are pretty fucking lucky”, con tanto di videomessaggio per la mamma) arrivano l’immancabile Serpents e, infine, Every time the sun comes up, che perde un po’ dell’epica lo-fi dell’album, ma resta sicuramente una canzone fantastica, orecchiabile e con un verso indimenticabile per concludere la serata: “I washed your dishes, but I shitted in your bathroom”.
Cover credit: Youtube