Per molto tempo il volto di questa donna è stato un simbolo. È già successo: sogni e speranze dell’uomo a volte si incarnano nei particolari tratti di un volto, che diventano veri e propri simboli. Così il volto di Martin Luther King ha incarnato una speranza di pace o amore universale, in cui il colore della pelle potesse diventare – un giorno – insignificante. O quello di Ernesto Che Guevara – prima di diventare un ornamento da t-shirt – è stato simbolico di una lotta di emancipazione e auto-determinazione dei popoli, in particolare in Sudamerica. Anche il volto di Aung San Suu Kyi è stato un simbolo: incarnava un’innata sete umana per idee come libertà e diritti umani.
Per questo oggi il silenzio di Aung San Suu Kyi sulle violenze contro la minoranza musulmana dei rohingya in Birmania ha scatenato polemiche, e numerosi inviti alla leader del partito al governo del paese a uscire fuori dalla patina rumorosa del silenzio, dire qualcosa, condannare. Il ruolo di quel volto/simbolo lo impone. Da mesi la minoranza dei rohingya continua a fuggire in massa verso il Bangladesh per sfuggire al massacro in atto nel paese, tanto che l’Onu ha parlato di pulizia etnica vera e propria.
Oltre al silenzio la diserzione: Aung San Suu Kiy ha fatto sapere che non parteciperà all’Assemblea Generale dell’ONU dove si parlerà delle violenze contro questa minoranza in Birmania nei prossimi giorni. Naturale che gli appelli diventino sempre più insistenti, e le condanne pure.
Nicholas Kristof sul New York Times ha parlato di A Nobel Peace Prize Winner’s Shame. Nelle ultime tre settimane – scrive – la maggioranza buddista in Birmania ha sistematicamente massacrato i civili della minoranza musulmana rohingya, costringendo 270.000 persone [cifra salita a 370.000 nelle ultime ore] a fuggire in Banglandesh, con i soldati pronti a sparare al confine. Noi che abbiamo combattuto per la tua libertà – aggiunge Kristof – ora dobbiamo aspettarci solo silenzio da questa libertà? Come on, Aung San Suu Kyi, there is no defence for mass murder, scrive il Telegraph.
Non è mai stata facile la vita dei rohingya in Birmania – o Myanmar, come preferite, visto che ogni distinzione è saltata negli ultimi tempi. Se un tempo Aung San Suu Kyi preferiva chiamare il paese Birmania in opposizione alla giunta militare che usava Myanmar, oggi le sue posizioni si sono ammorbidite e i due nomi sono piuttosto interscambiabili. Chissà se un rohingya oggi preferisce il nome di Birmania o Myanmar, di certo non è la prima delle sue preoccupazioni al mattino.
Perché le vessazioni nei confronti di questa minoranza musulmana (che non ha neanche una vera e propria cittadinanza) non sono cominciate lo scorso agosto in Birmania, ma hanno radici più lontane. I birmani non hanno mai considerato connazionali i rohingya, sin dai tempi in cui il paese era una colonia britannica. Così non è conveniente schierarsi dalla parte dei rohingya.
Ma le difficoltà di Aung San Suu Kyi sono più profonde. Nonostante sia in carica come Consigliere di Stato in Birmania (un ruolo creato ad hoc dopo la vittoria alle elezioni del 2016), Suu Kyi non detiene realmente tutti i poteri in Parlamento: la sua vittoria è anche il frutto di un compromesso con gli stessi militari che ha combattuto ferocemente. I militari non sono stati esclusi dal parlamento, ma hanno il controllo del Ministero degli Interni, delle Forze Armate e dei Confini. Un piccolo smacco a quel volto che era simbolo di libertà.
Eppure ricordiamo le parole che hanno animato la lotta di resistenza di Aung San Suu Kyi, le stesse parole che vorremmo sentirle ripetere ora: “Non è il potere che corrompe, ma la paura. Il timore di perdere il potere corrompe chi lo detiene e la paura del castigo del potere corrompe chi ne è soggetto”. Forse quel volto, quel volto di libertà in cui i birmani hanno potuto intravedere le proprie speranze, parlava solo a nome dei sogni di una parte e non di tutti, e abbiamo frainteso. Forse la paura corrompe davvero chi detiene il potere.
Tuttavia nonostante gli appelli internazionali Aung San Suu Kyi continua a battere la silenziosa strada di restare nell’ombra, e non condannare le violenze nel paese. Allora torniamo alle parole di Kristof, tutto il sostegno che è stato dato a questo Premio Nobel per la Pace in nome di un’idea magnifica come la libertà, a cosa è servito? Il simbolo, il volto che incarnava l’idea della libertà, avrebbe la responsabilità morale oggi di esporsi, parlare a nome di un’umanità più ampia di quella del suo piccolo circondario, considerare il popolo birmano qualcosa di più della semplice maggioranza del paese (qualunque cosa voglia dire maggioranza in un paese eroso da grandi divisioni). Quel volto/simbolo avrebbe la responsabilità di non dimenticare le minoranze.
Per questo c’è molta amarezza intorno alla figura di questa donna oggi, per questo siamo così assordati dal suo silenzio. Ci si arrampica alla ricerca di un perché, si tenta di spiegare razionalmente cosa impedisce a Suu Kyi di parlare e farsi portavoce dei diritti più basilari dell’uomo, come ha fatto in passato. Nel frattempo migliaia di sfollati continuano a fuggire in Bangladesh per restare vivi: “abbiamo il diritto di esistere”, ripetono i rohingya. Ed è così. Checché ne – non ne – dica un Premio Nobel per la Pace, la cui unica dichiarazione in merito è stata quella di condannare la stampa e le sue fake news.
Come sarebbe bello se l’unica fake news di questi tempi magri fosse quella sul suo silenzio. Se stesse parlando e noi non lo sapessimo. Se stesse lottando internamente, tra i militari, per i diritti dei rohingya, per il loro diritto ad esistere. Sarebbe bello, sì, se questa diventasse una fake news.