E chi li vede che se ne vanno per la città
se tutti sono ciechi?
Loro si prendono per mano: qualcosa parla
fra le dita, dolci lingue lambiscono
l’umido palmo, corrono per le falangi,
e sopra sta la notte piena d’occhi.
(J. Cortázar, Gli Amanti)
Giugno freddo e anche caldo, in partenza sul binario Subterranean Tapes.
BELIZE, Spazioperso, Ghost records, Collettivo HMCF
3 giugno
Quello dei Belize è uno spazio che conosciamo tutti, soprattutto nella sua difficoltà di apparire interessante quando lo si vive. Questa necessità di raccontare la propria quotidianità, che spinge l’ascoltatore a un’immedesimazione quasi-sentimentale, è, però, sintomo di qualcos’altro. Qualcosa che si è perso, probabilmente, e che si ricerca dentro le proprie abitudini, nella libreria piena di Dylan Dog, sotto la pioggia di Varese o agli esami dell’università. Ma la linea è tracciata e i Belize sfruttano anche nella musica questa alterità, che nasce da certe basi hip hop che vengono srdaicate, poi, su una direzione più pop ed elettronica. È quello che succede in Bovisa a mano armata, in cui l’introduzione ricorda certi film, più spaghetti western che il riferimento a Lenzi e Thomas Milian della Roma violenta, e viene poi stravolta su strade più moderne. I linguaggi si mescolano se non li sai cogliere, e Spazioperso è proprio il risultato di questi scarti che non dipendono più da noi.
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GEMMA RAY, The Exodus Suite, Bronze Rat Records
10 Giugno
Il modo che possiede Gemma Ray di trasformare l’alt pop delle sue canzoni in una specie di ballata post-romantica lo dimostra tutto in The Exodus Suite, e c’è sempre bisogno di ribadire che questo mondo non si restringe alla sola Julia Holtier, di cui non condivide lo sperimentalismo, preferendo un songwriting lineare e genuino, che finisce per affondare, forse un po’ troppo, in situazioni barocche. Il lirismo si fa ipnotico e protratto verso un infinito lynchiano (Ifs & Buts) e a volte serve prendersi un attimo per risalire. A metà, quindi, fra la Holtier e il cupismo di Chelsea Wolfe, Gemma Ray recupera il vecchio modo di comporre, in cui i chorus si assottigliano al minimo indispensabile per favorire una narrazione continua, destinata a smateriallizzarsi nelle lunghissime chiusure in reverb. Tutto sta nella sua voce particolare, che si alterna in un dolce lamento (The Switch) e sa farsi più sostenuta e quasi black all’occorenza, senza che si possa davvero abbandonare il ricordo di una malinconica Ella Fitzegarald.
SAMARIS, Black Lights, One Little Indian, Audioglobe
10 Giugno
I Samaris non hanno certo bisogno di presentazione, e nemmeno la terra da cui arrivano, a dirla tutta. Forse perché siamo abituati a pensare all’Islanda sempre come alla sola metà buia dell’anno, e alle ambientazioni che Sigur Rós e Múm hanno contribuito a formare. Poi c’è Bjork, ovviamente, e se non è luce quella, distorta e tagliente, da qualcosa di simile nasce il trio di Reykjavík, che però attinge, in parte, alle due anime di Bristol, fra il trip hop (I Will, 3y3) e l’alternative più conosciuto (R4vin). Black Lights è il frutto più genuino di questa uncertain hour in cui non è più notte ma nemmeno ancora giorno (White lights in distance, black lights..). T4angled è volontariamente il riassunto di queste due nature con cui il disco deve fare i conti per arrivare alla distanza di In Deep, quando le ossa non ti reggono più.
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TUSKS, False EP, One Little Indian, Audioglobe
10 Giugno
Sono quattro piccole perle quelle di Tusks e del suo False EP, ognuna con la sua diversa struttura e ragione, nel descrivere ciò che è fino in fondo. I campionamenti di quella che potrebbe essere una giornata di pioggia, che aprono For You, si mescolano alla voce trasognante e piena di echos, e non servono molte parole per far comprendere a chi sia diretta. Questa disperata ripetizione della formula che ne dà il titolo, momento di solito sullo sfumare di una canzone, non lo rende ostile all’ascolto, anzi è la via diretta per entrare nel mondo che Emily Underhill cerca di raccontarci. Come se i nomi dei brani nascondano uno strano significato nascosto, indirizzato a qualcuno o qualcosa, così intenso in ogni suo riflesso, magari nel suo mentire (False) o che semplicemente si trova lacerato (Torn), alla fine di tutto. È un cantautorato differente, minimalista a tal punto da lasciare la necessità di una pausa, perché comunica più di suggestioni che a frasi, e ci riempie completamente.
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BEN LUKAS BOYSEN, Spells, Erased Tapes, Audioglobe
10 Giugno
Non c’è da stupirsi se Nills Frahm abbia voluto Ben Lukas Boysen (già conosciuto come HECQ) con sé alla Erased Tapes, contribuendo insieme a Olafur Arnalds alla masterizzazione del suo album. Servono pochi istanti per capire i pregi di Spells, che è destinato a essere una delle più belle interpretazioni del genere. Alle composizioni per pianoforte vengono aggiunte batteria, violoncello, arpa ed elettronica, fino a sconfinare quasi in un certo tipo di downtempo. Ma, in realtà, è già il nuovo stile della musica classica come dovremmo conoscerla, ancora esclusa in parte da quelle definizioni. Golden Times I è solo uno degli esempi che fanno comprendere quanto lo stile di Frahm non sia che una parte di un mondo che si lascia a poco a poco scoprire, mostrandosi a tutti con la sua particolare bellezza, a volte fin troppo sussurrata. La contaminazione classico-elettronica sta probabilmente toccando uno dei suoi punti più alti, e sono per cose come Golden Times II che vale la pena togliere la polvere da certi scaffali.
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JOAN THIELE, S/t, Universal
10 Giugno
Che un certo genere di cantautorato femminile stesse emergendo nel nostro paese era già più di un sospetto prima dell’arrivo di Joan Thiele, la prima però a portare uno stile di questo tipo in una casa discografica di dimensioni notevoli come la Universal. Forse qualcosa si sta davvero muovendo e insiste su un genere che già è assodato oltreoceano ma che qui da noi ancora stenta a essere considerato, probabilmente, come ‘vendibile’. La voce cristallina di Joan riesce a far ben coesistere i generi che tocca, soprattutto quelli più commerciali di Drive in con estensioni più acustiche, sempre supportate da un’elettronica marcata a rendere i finali più dolci (Cup of Coffee). Può darsi che certe soluzioni appaiano semplici, ma questo non intacca il fatto che sia un disco estremamente godibile.
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IL COMPLESSO DI TADÀ, S/t, Record Kicks
10 Giugno
Si è creata una specie di dipedenza al cinematic funk, modo con cui si definiscono i Calibro 35, da cui proviene Massimo Martellotta, che ha ideato insieme a Filippo Timi Tadà, trasmissione in onda su Discovery Channel, da cui le rielaborazioni de Il complesso di Tadà provengono. Un’antologia swing che recupera alcuni classici, suonati in collaborazione con altri artisti (Mah Na Mah Na con Elio, Il surf del Mattone insieme a Nina Zilli, mentre Timi si presta a Parole, Parole, Parole e Sapore di sale), e brevi parentesi solo strumentali, intermezzi della trasmissione che non sgualciscono il vestito anni ’60-70 che si mette addosso. Ammiccante e leggero è uno di quei polverosi 45 giri che tutti hanno nello scatolone in cantina e che ha cambiato, nel bene e nel male, una generazione di questo paese.
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KING OF THE OPERA, Pangos Sessions, A Buzz Supreme
17 giugno
Le Pangos Sessions non sono un album di inediti, ma la rielaborazione in studio solista di Alberto Mariotti e dei propri progetti del passato, e di quelle cose che parlano di ciò che più lo hanno influenzato influenzato nella sua storia. Il disco si compone infatti di cinque cover del 1985 (anno di nascita dello stesso Mariotti), fra cui spicca Blind Love di Tom Waits, che probabilmente si lega più allo stile di King Of the Opera, quattro riletture dal repertorio di progetti precedenti, e By The Shore, l’unica traccia non rilasciata. Le capacità di questo disco sono ambivalenti perché permettono al suo autore di guardarsi dentro e, contemporaneamente, di mostrare agli altri quell’intimità che spesso rimane più nascosta. E così ci sono i Waterboys, i Replacements, i Cure e i Sonic Youth, una quantità di coordinate differenti che collidono nella loro resa folk, matura e schizofrenica com’è una natura piena di alter-ego (compreso il progetto Samuel Katarro) e, proprio per questi continui mutamenti, più sincera di quanto ci si potrebbe aspettare.
OVERLOGIC, From Where?, Autoproduzione
21 giugno
Quello degli Overlogic è un trip spaziale, che cerca di toccare diverse dimensioni e sensibilità, ma finisce presto col perdersi per la marea di indicazioni che vuole dare. Il disorientamento è una cosa complessa da suscitare, nel senso che rischia di non riportarti più indietro e a valutare singolarmente ogni traccia, lasciando da parte l’intero contesto in cui si dovrebbe posizionare. Ma è comunque degno di attenzione anche per questo, se solletica più mondi lontani fra loro arriva a integrarsi su un filone piuttosto meccanico, un non-luogo musicale come quel From Where?, probabilmente, sta a significare. Ritmo sostenuto e groove ripetuti costituiscono gran parte della cassa sonora, che si ripresenta in modi instabili e vortica fino al movimento successivo che non sembra stancarsi mai, e ostinato continua. L’elettronica è dominatrice assoluta, ma si lascia andare o, così sembra, nel piano iniziale di Early Morning Orizon, poco prima che partano le drum machine e la voce metallica ritorni con un turbinio di sensazioni, se positive o meno dipende, quasi sicuramente, dalle vostre condizioni.
Released tracks: Energy