ti ho risparmiato
tutte queste parole,
le parlo adesso da solo
mentre mi guardo passare.
Molto probabilmente non cresciamo mai e, per quanti anni possano passare, rimaniamo sempre i ragazzini che cantavano sotto al palco e guardavano con devozione gli eroi della propria gioventù, credendo che tutti possano morire ma loro no, figli di una spiritualità quasi eterna. C’è che poi cresci e li conosci e, comunque, ti sembrano inarrivabili, che possiedono un corpo come te ma quello che c’è dentro è difficile da raggiungere. Ti si incrina qualcosa dentro quando ti arriva la notizia che non ci sono più, anche se non sei parente o non sei amico di una vita e non sai dirti perché. Ti rendi conto che quell’eternità non esiste e senti il dovere di andargli a dare un ultimo saluto, in imbarazzo perché, magari, non sei la persona più indicata per condividere il tuo tipo di dolore, profondamente diverso da quello che prova chi gli è stato a fianco una vita per davvero. Ma poi pensi, un po’ egoisticamente, che tutti meritano di raccogliere i frutti di quello che hanno costruito nella propria esistenza anche se, per quella grande sciocchezza che è la vita, avviene quando è già troppo tardi. Ti fai coraggio e vai, in quel posto freddo e al neon, che ti ricorda altri brutti momenti, credendo che, magari, il tuo viso sconosciuto a tutti possa dare un sentimento di orgoglio negli amici, perché non sei un guardone alla ricerca di un momento degno di nota, in una vita senza apici, ma una persona realmente addolorata per quello che è successo. Se, poi, hai condiviso la stessa città ti senti in dovere di esserci, come essere umano più che cittadino, più perché quando lo vedevi sul palco o mentre ci parlavi, anche se sai che non si ricordava di te, ti dava qualcosa di suo.
Il silenzio di una camera mortuaria ti fa ancora più male, gli occhi rossi e le lacrime della famiglia ti fanno capire che era davvero come te e non era solo qualcuno da ammirare e per cui valeva la pena farsi dei concerti sotto la pioggia di una festa dell’unità emiliana. Non ti ci abitui mai a certi silenzi, soprattutto di chi ha passato una vita a suonare, come un disco in vinile che ha consumato la sua ultima traccia ma continua a girare all’infinito nella mente di chi ha avuto la possibilità di ascoltarlo. Forse è una questione di giovinezza o di volontaria autoflagellazione, ostinarsi a considerare chi ha musicato la tua adolescenza come eterno, ma poi non è neanche troppo sbagliato se quando succede riesci a provare un dolore reale e gli occhi ti si arrossano e non sai spiegarti perché. L’unica cosa che ti puoi dire è che sei vicino a chi soffre, ma sono parole che non consolano nessuno. Puoi dirti, però, che se non ci fosse stato nessun altro sconosciuto come te, per un attimo, hai incarnato chi non ce l’ha fatta a portare il suo saluto. Ed è un dovuto tributo, un umano ringraziamento a una vita che scorreva parallela e silenziosa accanto alla sua, senza farsi notare, nel buio di un club o nella folla di un campo all’aperto. E, un po’ stupidamente, ti accorgi che essere ragazzini alla fine non è così tanto sbagliato e non è neanche banale soffrire per una persona che, nella vita reale, non conoscevi realmente, se non tramite i pezzi del suo gruppo.
Non vuole essere un ricordo o un tributo che sfrutta la sensibilità in questa materia per darsi importanza , altre persone potranno farlo e lo faranno in maniera migliore. È la confessione di una persona, come molte altre, che a questa notizia hanno reagito male e si sono sentiti un po’ più vuoti del solito e hanno deciso, mettendo su un vecchio pezzo degli Offlaga, guardando le foto dei concerti o in una discussione in un bar, di esprimere il loro personale lutto. Sicuri che, in qualche modo, qualcuno capirà.
Ciao Enrico.
Reggio Emilia è una città più silenziosa da due giorni.
un sunto che – pur essendo in un'altra città – non posso che sottoscrivere.