Nell’immaginaria cassetta della posta che tengo sul comò, mi è stato recapitato un libro della scrittrice egiziana Iman Mersal, Sulle tracce di Enayat, edito da Crocetti. Non so molto di Mersal, ma è facile cercare le sue tracce su internet: nata nel 1966, è poeta, traduttrice, ricercatrice. Il suo libro è il genere di storia da detective selvaggi che si mettono sulle tracce di ispiratori, straordinari debordamenti letterari – Iman Mersal fa parte di quella speciale banda di ossessi che capitando su un libro, una scrittura, non possono fare a meno di pensarci, cercare – finché la spinta a conoscere non si esaurisce.
Prima che il fantasma di ‘Enayat cominciasse a perseguitarmi, prima che mi lasciassi prendere e mi mettessi a seguire le tracce dei suoi passi, ero solo una lettrice curiosa di rintracciare la genealogia letteraria di una scrittrice sconosciuta.

È andata così. Un giorno, tra mercati di libri e usati, Iman Mersal si imbatte in un romanzo, L’amore e il silenzio dell’egiziana Enayat al-Zayyat. Ancora non può sapere che dopo la lettura resterà turbata, che morsa dal ragno della curiosità dovrà per forza mettersi sulle tracce di una scrittrice che ha lasciato al mondo un solo libro e si è suicidata dopo il rifiuto editoriale del suo manoscritto. Enayat si uccide nel 1963, il romanzo viene pubblicato quattro anni dopo. “Non è stata la trama del romanzo a farmelo amare”, scrive Mersal. È la voce dell’autrice a conquistarla: “titubante, esaurita, tentennante, priva di fiducia in sé stessa, quasi un lamento che si leva da dietro un muro.”
L’amore e il silenzio è un libro strano, che testimonia un risveglio della coscienza e lo sconfinato esilio dentro sé stessa della sua autrice. Il romanzo detective di Iman Mersal gioca con la sovrapposizione e il riverbero, avanza come una caccia al tesoro tra terrori e incanti: leggendo veniamo a scoprire dettagli non solo di Enayat, ma della storia egiziana e la letteratura araba. La tragedia di una donna con un figlio che si uccide per un libro affascina a tal punto l’altra scrittrice da stimolare un dialogo nel tempo per provare a rimettere insieme i pezzi: cosa ha ucciso Enayat, il mondo o l’intimo latrato umano. Società e fragilità si agguantano sul suo cadavere a turno.
Iman Mersal ricostruisce senza ordine la vicenda disarticolata di una dimenticata: la morte del fratello, l’amicizia con l’attrice Nadia Lufti, il risveglio politico, il divorzio, la scrittura, il fallimento, la perdita dell’affidamento del figlio. Per arrivare al cuore di Enayat, Mersal sperimenta diverse strade. Ricerche d’archivio, personali impressioni, note a pelle, brevi ritratti della società egiziana, passeggiate nei quartieri del Cairo, incontri. Durante una conversazione con Nadia Lufti, Mersal domanda se nel romanzo dell’amica ci sia una influenza de La porta aperta di Laṭīfa al-Zayyāt, se esista una connessione per via del cognome. Nadia Lufti lo esclude: “’Enayat e io siamo di un’altra generazione. Rivoluzionarie anche noi, sì, ma in un altro modo.” Al contrario di Latifa, la figura di Enayat verrà ignorata dagli archivi: a questo proposito leggiamo interessanti considerazioni di Iman Mersal sul nichilismo degli archivi, di come spesso si fondino sulla ripetizione o l’interesse nazionale.
L’archivio è un prodotto della civiltà, del desiderio di conservare contiguità, molteplicità e contraddizioni che, prese tutte insieme, costituiscono la memoria collettiva. Ed è anche, inevitabilmente, il riflesso di quanto una cultura sia consapevole della propria memoria. Nei periodi di declino, l’importanza della memoria si affievolisce. E allora arriva l’esperto che decide cos’è importante e cosa no.

Recuperando diari, scritti, patemi e ossessioni, Iman Mersal procede nella sua indagine mantenendo alta la tensione narrativa: è una scrittrice equilibrista che tenta di tenere insieme i frammenti della storia moltiplicando punti di vista. C’è lei, l’io-narrante, la scrittrice e ricercatrice; c’è l’oggetto della ricerca, la vera protagonista del romanzo, ‘Enayat; ci sono i fantasmi che popolano il racconto, i comprimari, con le loro voci, i loro articoli, le loro testimonianze; ci sono le fotografie in bianco e nero, e la scena di un’Egitto sfumato, con i suoi recensori di corte, i suoi archivi, i suoi politici.
Per interferenza – per il tipo di libro che Sulle tracce di Enayat è – si incrocia pure tanta letteratura: una poesia di Sargon Boulos, una rivista surrealista, intellettuali, poetesse, caffè. Si fa presto a fare i conti col fatto che ‘Enayat sia una possibilità perduta – di quelli che si perdono nel viaggio, che non sanno afferrarsi a niente e sbattono contro gli spigoli della vita. Il suo suicidio ha lasciato uno strascico di sofferenza che l’indagine del romanzo non può colmare, ma non è questo lo scopo. Iman Mersal non ha scritto per rendere giustizia o riportare in vita: è rimasta ossessionata, ha dovuto inseguire il filo di un archivio di dimenticanze che sottotraccia narra pure frammenti di storia del suo paese, di una città in un momento di cambiamento e vivacità negli anni Sessanta. Dopodiché avremo voglia di leggere L’amore e il silenzio, di scoprire questa voce deviata e persa, esagitata, frammentata, terrorista della forma. (anche se a volte è bello pure sognarli questi libri e leggerli mai)