In seguito al suo debutto Innerspeaker nel 2010, e ancora di più dopo il suo follow-up Lonerism, due anni dopo, Kevin Parker, insieme alla sua personale creatura Tame Impala, sono stati considerati i protagonisti di un revival della psichedelia e della sua stagione d’oro, gli anni ’60. Sarà stato il capello lungo, quel look da cantante dei Blue Cheer, una voce pericolosamente simile a John Lennon, la perizia filologica nel suggerire (non ricreare) atmosfere sospese tra Kinks e stoner rock, fatto sta che, dopo parecchi anni dall’ondata revivalista di Strokes, Interpol, Yeah Yeah Yeahs etc., la biblica narrazione del rock tornava ad avere un profeta, una figura distingubile, un portavoce.
Parallelamente al rito collettivo di una ritrovata rilevanza del rock e della psichedelia come significante estetico, iniziava a formarsi una fanbase attenta piuttosto ai dettagli di produzione: si magnificavano le batterie e le drum machine, la rotondità dei bassi, la profondità dei riverberi. Un seguito geek, una meraviglia davanti a canzoni costruite maniacalmente, ogni dettaglio al suo posto, ogni suono significativo di per sé e per l’altro lontano che evocava. Poi quella voce così dilatata, quelle atmosfere così ricche di colori che era una goduria perdercisi dentro in una sorta di stupore vaporoso, quasi vaporwave per l’idea di un passato ovattato e ricreato con mezzi di produzione all’avanguardia.
Un tipo di sguardo alla musica di Tame Impala ancora più usato dopo l’uscita di Currents, nel 2015. Le chitarre lasciavano il passo ai sintetizzatori, la batteria sempre più in 4/4, l’utilizzo del loop come forma creativa, tipico dei producer hip hop. Kevin Parker, pur rimanendo all’interno di una bolla personale (scrive, suona e produce rigorosamente in solitudine), inizia da un lato a ricreare suoni e atmosfere di un passato diverso agli anni ’60 (passiamo qui alla disco, a un approccio più funky in quanto più incentrato sulla coppia basso-batteria), dall’altro ad aprirsi alla contemporaneità, ai suoni più in voga in quel momento (nel 2015 è uscito Random Access Memories dei Daft Punk, per dirne uno: Pharrell e Nile Rodgers nella stessa canzone, l’idea di disco come device di riproduzione di memorie musicali riprodotte in maniera troppo perfetta).
Da quel momento le figure del santone del rock e del nerd da studio di registrazione trovano una dimensione nuova che è quella della stardom mondiale. I più famosi artisti pop si servono delle sue produzioni, ma Parker continua comunque ad essere un nume tutelare per rockettari autentici e per smanettoni di ProTools. Un’aura sfaccettata, quindi, un talento bifronte. Da un lato portavoce di una visione museale del rock come manufatto artistico dotato di una sua purezza e quindi da conservare intatto in teche e musei; dall’altro, fautore di una contaminazione dell’immagine classica del capellone con la chitarra con l’olimpo del pop di allora (Kanye West, SZA, Travis Scott tra gli altri).
La parola più usata nella ricezione della musica di Tame Impala è psichedelia. Da Innerspeaker a Currents si è fatto sempre riferimento a questo concetto per descriverne il feeling e le sonorità. Chiaramente, vi sono elementi che in un discorso estetico possono essere ricondotti alla psichedelia: parliamo qui delle voci sature di riverbero, dell’utilizzo massiccio di flanger ed effetti di modulazione, di melodie dilatate nel tempo, di canzoni che spesso prendono la piega di vere e proprie jam. Insomma gli elementi musicali delle canzoni di Tame Impala, singolarmente, rimandano a un periodo storico, quello degli anni ’60 e ’70, che ha visto la formazione e la stabilizzazione della figura del rocker stoner, un po’ nerd, archivista ed enciclopedista di suoni e della loro manipolazione: una figura che viene spesso associata, quasi inconsciamente, a una modalità complessa di fruizione musicale: tanto più le architetture sonore sono complesse, tanto più il piacere estetico/critico e quello “sognante”, derivante da stati di coscienza alterati (in OGNI intervista gli chiedono delle droghe che prende, ma perché?), si mischiano. Un tipo di approccio che accomuna, per dire, fan di Grateful Dead e Radiohead, Pink Floyd e Phish, Dirty Three e DJ Shadow.
Qui forse, nell’utilizzo improprio del termine psichedelia, si ritrova il successo multidisciplinare di Tame Impala. Premesso che ormai nelle enciclopedie il termine psichedelia è istituzionalizzato, e rimanda a significanti estetici codificati, la stagione a cui rimanda, e la semantica originaria della parola sono molto diverse rispetto a ciò cui si fa riferimento oggi. Originariamente la connotazione della psichedelia era di tipo collettivo: dagli Acid Test di Ken Kesey alle comuni, dal comunismo acido di Mark Fisher ai concerti al Fillmore West, che fosse attraverso la musica, la droga, una rinnovata coscienza politica, sociale e sessuale, l’intenzione alla base era una liberazione che fosse condivisa, mai solo intima. Kevin Parker invece non ha mai fatto mistero della dimensione puramente personale e introspettiva della sua musica, cosa già evidente dai titoli dei suoi lavori. La sua non può essere quindi chiamata una proposta psichedelica, quanto piuttosto allucinatoria, intendendola qui come fuga dalla realtà. D’altronde, nelle sue parole non si trova traccia di ecumenismo: “non mi aspetto che la gente sia in viaggio con me per tutto il tempo. Anzi mi aspetto che salgano sul treno e scendano alla stazione successiva”, dice in un’intervista recente. Anche il processo di lavorazione dei suoi dischi somiglia piuttosto a una fuga: “avere quello che lui (Kevin Parker, NdA) chiama una ‘festa solitaria’, dice, era un modo di concentrarsi sulla musica, scappando dalla ‘pressione che mi autoimpongo, le attese che altre persone possono avere'”.
Il nuovo disco, The Slow Rush non si discosta da questo approccio per il quale, citando il titolo di una sua canzone, Solitude is Bliss. I testi del nuovo lavoro sono perlopiù impressionistici, e rimandano a esperienze personali come il recente matrimonio (“We can get a home in Miami / Go and get married / Tattoo your name on my arm” in Instant Destiny) o la morte del padre in Posthumous Forgiveness (“Just a boy and a father / What I’d give for another“). The Slow Rush si distacca però dai precedenti per le memorie musicali di cui si serve e che ricrea. Abbandonato ormai del tutto lo psych rock e i rimandi agli anni ’60, siamo davanti a un disco che prova a evolversi dall’ormai consolidato Tame Impala-sound per consegnarsi ai bozzetti cripto-dance di Currents.
L’elemento che salta di più agli occhi è il piano, suonato percussivamente, a scandire le battute, che dà una patina glitteratissima a tutti i pezzi, tra il romantic soul di Barry White, il glam pop di Roxy Music e Steely Dan e il cosiddetto yacht pop anni ’70 di Supertramp e Fleetwod Mac. Sotto questa incipriatura, le canzoni sono quasi tutte guidate dalle percussioni, fin dall’iniziale One More Year, dove il tappeto ritmico viene creato, oltre che dalla cassa in 4/4, da frammenti di voci trattate col vocoder che aggiungono profondità. I riferimenti alla musica che chiamiamo elttronica/dance coprono un ampio spettro: Borderline è il singolone danzereccio, dai bassi pompatissimi e dal ritornello super cantabile, con quel flauto sotto che è allo stesso tempo un significante hip hop e un rimando alla stagione dei Jethro Tull. Altro punto di contatto tra un’idea di anni ’60 e le tendenze contemporanee. Is it True è una novella Rock the Casbah: parte uguale uguale, assorbe il discorso sul funky bianco e robotico portato avanti dai Talking Heads per poi sfociare nel finale in una jam session tra i Bee Gees e Blood Orange. Altro recupero è quello portato avanti nella troppo breve Glimmer, muzak per un’alba tra Ibiza e Berlino negli anni ’90, tutta piena di hi hat e clap da essere commovente. Altro pezzo molto interessante è la conclusiva One More Hour, un dj set di The Weeknd incentrato sugli Air, con melodie vocali R’n’B e aperture epiche di synth prog-house. Infine, It Might be Time, un concentrato di batterie, sirene e synth big beat che sembrano prodotte da un crate digger ossessionato da Fatboy Slim.
Altri pezzi, invece, rimangono più vicini a Currents. On Track, ad esempio, è un sogno dolce di Brian Wilson impiastrato di zucchero filato, e non avrebbe sfigurato in quella teenage symphony to god che sarebbe dovuto essere (e in parte è) Smile. Tomorrow’s Dust parte quasi come una bossanova, per poi sfociare in territori vicini a The Village Green Preservation Society. La chitarra ritmica funky torna in Breathe Deeper, e insieme a un piano elettrico alla Barry White riporta a un’eleganza patinata da scenario urbano anni ’70, prima di switchare per un momento in un pezzo tutto chitarroso come sei REO Speedwagon uscissero dall’autoradio di una vecchia Cadillac.
In conclusione, il progetto di Tame Impala di diventare un nuovo Max Martin, ovvero uno spin doctor del pop contemporaneo, sembra con The Slow Rush appena agli inizi. La sua grande cultura musicale e abilità in studio gli permette di affrancarsi dal suo tipico sound che ormai è diventato marchio di fabbrica rivolgendosi ad altri linguaggi, provenienti perlopiù dalla club music e dalle tendenze hip hop e R’n’B contemporanee, rimanendo però in controllo del risultato finale. Che approfondisce il discorso portato avanti da Currents e sposta la sua aura un po’ più in là, dai palchi di festival come il Primavera Sound a quelli tipo, ok non proprio il Tomorrowland ma un giorno chissà.