Ogni storia familiare è smisurata e contiene l’intera umanità. Abbiamo una sola opportunità di raccontarla e non dobbiamo sprecarla.
In questa frase del libro di Ferdinando Cotugno, edito da Guanda, si può ritrovare il cuore pulsante di tutto il racconto che si dipana lungo 250 pagine dense e pulsanti. Tempo di ritorno è un romanzo che contiene al suo interno mondi lontanissimi e vicinissimi, contiene la storia di una famiglia che a suo modo ci racconta la storia di molte altre famiglie. Il clima è la memoria del futuro, ci dice l’autore, e proprio dal clima si parte per ricostruire un passato che appare remoto ma che è più vicino di quanto pensassimo all’inizio della nostra indagine. Dico “nostra” perché il lettore si affianca sin dalle prime battute nel percorso di ricostruzione della memoria familiare e climatica dell’autore.
Saggio e romanzo si passano la palla in continuazione come fossero due calciatori dello scintillante Napoli di Sarri. Non cito questa squadra a caso, il Napoli è forse uno dei legami più forti tra padre e figlio per come apprendiamo nel corso del racconto. In statistica, il tempo di ritorno è il tempo medio che corre tra il verificarsi di due eventi di uguale intensità, così per il protagonista della narrazione ci sono voluti vent’anni per andar via di casa ed altri venti per ritornare a indagare su quel luogo fucina di ogni cosa, non solo personale ma anche generale. Il luogo geografico del misfatto è Bagnoli, da sempre quartiere di Napoli con una storia a sé. Lo dice anche Ferdinando, quando si parla di Napoli si dice spesso “sopra Napoli, giù Napoli, ma quando si parla di Bagnoli si dice solo e soltanto Bagnoli” ed è lì dove nei secoli scorsi il mare regalava uno dei luoghi più belli della città che la famelica industrializzazione decise che la morfologia spontanea doveva essere asservita alla produzione di acciaio, il migliore acciaio del mondo secondo chi lo produceva e non solo. A quel ciclo produttivo non potevano resistere nemmeno le persone, le vite e le storie che erano lì da prima. Come il palazzo del Bianchettaro dove nascono i nonni di Ferdinando, che viene cancellato per far posto alla colmata da cui sarebbe nata la fabbrica.

Alfa ed omega, l’Italsider sarà la figura attorno alla quale cominceranno a orbitare tutte le vite prossime e meno prossime di questo racconto. Ma come per il sistema solare, quando viene meno un pianeta attorno a cui orbitavamo la nostra orbita cambia, si riorganizza. Così le esistenze di chi viveva intorno alla produzione dell’acciaio attraverso lo sfruttamento dei combustibili fossili si devono riorganizzare. La fatica di trovare un nuovo centro è comune sia alle persone che al pianeta. Il clima è l’unità di misura di questa difficoltà di ripensare il futuro. La famiglia crolla sotto il peso di questi cambiamenti, come tutti noi crolliamo sotto il peso del sistema capitalistico. I genitori del protagonista, come molti loro contemporanei e come molti di noi venuti dopo, “sono stati cittadini modello del capitalismo, un sistema che prevede una sola risposta corretta alla domanda come stai, e cioè: stanco”. Su questa stanchezza si fona la difficoltà di cambiamento, la difficoltà di un cambio di paradigma mentale.
Il nostro pianeta, l’unico che abbiamo, va ripensato in termini di gioia e di benessere, perfettamente antitetici a quelli propugnati dal sistema produttivo imperante. Nel romanzo di Ferdinando Cotugno troviamo anche degli esempi virtuosi che in qualche modo indicano la strada. Si tratta di riempire dei vuoti, quelli lasciati dal capitale che non si preoccupa di sistemare la stanza quando è andato via. Così il paesaggio post-industriale di Napoli, da San Giovanni a Teduccio fino a Bagnoli ci racconta una storia di abbandono programmato. Si produce e si vive fino a che quel luogo è sfruttabile, dopodiché si va altrove, fino a che il pianeta poi finisce.
Tempo di ritorno è un libro in cui ci si mette all’ascolto delle storie personali e climatiche. Il nostro pianeta sta raccontando qualcosa che riguarda tutti, nei diversi capitoli lo vediamo attraverso le vite della famiglia dell’autore ma anche attraverso gli input che ci vengono dati con ampia documentazione. Dalle Isole Marshall agli operai del collettivo GKN c’è chi è già in ascolto da tempo e poi c’è chi fatica a sintonizzarsi su quelle frequenze.
L’impressione che si ha leggendo è di parole che esondano, di voglia incredibile di raccontare. Più che quello che ci è finito dentro viene da chiedersi quanto sia rimasto fuori a questo mare di emozioni, ricordi e connessioni riportate alla luce. Come se l’autore aspettasse da anni di aprire questo vaso di Pandora che attraversa la propria vicenda familiare e quella industriale e climatica del secondo novecento. Una forma di racconto ibrida che mescola, come già detto, saggio e narrativa, memoria e futuro. La linea cronologica attraverso la quale siamo abituati a leggere la storia non è valida per tutto, per i cambiamenti climatici, ad esempio, il tempo si rimodula. La lentezza del cambiamento non deve perciò essere vista come una sconfitta, ma come l’accettazione, in termini diversi da quelli a cui siamo abituati, di una possibile vittoria. La nostra storia personale è anche la storia dei luoghi che abitiamo, Tempo di ritorno non fa altro che raccontarci questo.