Durante l’inverno del 2012 Peter Silberman è a casa dei suoi genitori quando una tempesta di neve rapisce la sua attenzione e lo fa riflettere a lungo, portandolo ad un nuovo stadio di consapevolezza: una sorta di tranquillità derivata dall’accettazione del proprio stato d’essere, l’inaspettata confidenza con i cambiamenti della vita. Intorno a questo ritrovato limbo di quiete interiore ruota tutta la scrittura dell’ultimo album degli Antlers, il quinto della formazione, pubblicato il 17 giugno e anche questo autoprodotto.
Familiars è sapientemente costruito come un intimo dialogo tra le due parti di una stessa essenza. Si sviluppa a partire dal concetto di dualità vista nel confronto e rapporto con se stessi, con il proprio vissuto e con la figura dell’Altro e continua a snodarsi attraverso l’immagine della casa intesa come luogo di ritorno, centro stabile ma anche mutevole e friabile, e come punto di raccolta al tempo stesso di certezze e angosce. Così, quelle quattro mura che in ‘Refuge’ rappresentano un posto di appartenenza, provocano ansia e desiderio di fuga in ‘Hotel’, secondo singolo di lancio del disco, fatto di pochi arpeggi di chitarra che raccontano una strana solitudine: «In the hotel, I can’t remember how the past felt / But in a strange bed, I keep sleeping with my past self / Fuck now, I’m outta here tomorrow»
È un dato di fatto che Silberman abbia reso la propria esperienza personale il centro propulsore di questo nuovo lavoro, ma è altrettanto certo che sia stato in grado di nasconderla con abile maestria. Per intenderci, è sempre stata nel manifesto programmatico degli Antlers l’idea di fare un tipo di musica che non fosse semplicemente melodia e lyrics più o meno combacianti tra loro, ma piuttosto una delicatissima rete di emozioni attraverso le quali sia possibile raccontare una storia. Ed è in questo disco più che in ogni altro della band che si ricerca (e si ottiene) per chiunque un fine processo di immedesimazione emotiva all’ascolto. Sono gli accordi in minore, le trombe gentili di Darby Cicci, l’atmosfera sognante e la voce eterea di Silberman a rendere questo release, a tratti fin troppo moody, la colonna sonora ideale di un lungo viaggio, che sia in macchina o nella vita.
Ad aprire sono i tintinnii suggestivi di ‘Palace’, brano di struggente delicatezza, tra le cui note di pianoforte fa il suo accorto ingresso il suono corposo della tromba, poco prima che una voce sottile spieghi immediatamente la natura dialogica del concept di Familiars, lampante sin dalla copertina: «You were simpler, you were lighter when we thought like little kids». Anche alla luce di quanto già detto, non è dichiarato quali siano i partecipanti della conversazione, ma che si tratti di un doppio è subito evidente anche nella traccia successiva, ‘Doppelgänger’, toni fumosi, una tromba malinconica e rassegnata, parole inquietanti: «Can you hear me when I’m trapped behind the mirror? / A doppelgänger roaring from my silent kind of furor? / If you’re quiet, you can hear the monster breathing… / Do you hear that gentle tapping? / My ugly creature’s freezing».
Vale sempre la pena, è anzi quasi necessario soffermarsi sui testi di Silberman, che costituiscono la lucida struttura su cui il minuzioso arabesco musicale composto dagli Antlers va ad adagiarsi. Sono parole ricercate, che lasciano di tanto in tanto intravedere quella che, lungi dall’essere questa volta un sentimento negativo, è piuttosto la serenità di base di Familiars. Una serenità che risponde al concetto buddista di bardo (quello stato mediano tra la morte di un individuo e la sua rinascita nella vita successiva) che deve aver influenzato nella composizione dell’album il frontman, in quel momento impegnato nella lettura del ‘Libro tibetano dei morti’. Così si sente dire in ‘Intruders’: «Well this is my house, so fuck your doubts and your cute battalion / ‘cause I’m steady / and when my double scales the wall / I’ll know exactly where he’s landing and I’ll surprise him». Ed ecco, sono ancora in due a scalare questa parete di minimalismo ritmico, morbide pennellate di chitarra e falsetto narrativo alternato a un cantato più forte.
Notevole è la costruzione orchestrale dei singoli brani, di quasi imperfettibile pulizia, che si nutrono dell’essenzialità delle percussioni di Michael Lerner e delle luci cangianti dei synth sotto le mani di Cicci, la cui tromba è l’elemento chiave che rende questo disco molto più caldo e avvolgente degli album che lo hanno preceduto (anche quando con il binomio finale di ‘Surrender’ e ‘Refuge’ torna a farsi sentire il lato più ombroso della poetica di Silberman).
A conti fatti, Familiars è prima di ogni altra cosa elegante e gradevole. La forte emotività che lo caratterizza fa sì che riesca nel suo intento di coinvolgere chi lo ascolta e portarlo verso una catarsi, un senso di liberazione da cui è stato pervaso lo stesso frontman davanti a quella tempesta di neve. Ma non è un disco perfetto, dal momento che la sua coerenza e talvolta eccessiva retorica rischiano di renderlo ripetitivo e a tratti monotono. Per poterlo apprezzare fino in fondo bisogna sempre tenere in considerazione il complesso insieme di elementi che lo compongono e, dunque, la sua natura sofisticata. Ciò non sminuisce comunque il merito di Familiars di presentare un dettagliato tessuto di brani che non sono mai semplicemente canzoni e che invitano ad entrare in una dimensione affascinante in grado di risvegliare davvero qualcosa di profondo.