Un nuovo album dei National. Non era del tutto prevedibile che arrivasse a distanza di poco meno di due anni dall’uscita di Sleep Well Beast, e d’altro canto siamo abituati a sospettare che si possa incorrere nel rischio di ripetersi quando non ci si impone una certa distanza di tempo tra un disco e l’altro. Sappiamo però anche che quando parliamo dei National tutti i nostri peggiori presentimenti potrebbero essere sbagliati: durante la loro ventennale carriera hanno ormai scoperto il segreto per scrivere una canzone in stile National che suona avvolgente persino quando non si tratta della migliore delle loro canzoni. Basti provare a mettere su uno dei loro pezzi a caso: suonerà sempre ed esclusivamente come una canzone dei National. Forse è anche un po’ per questo se l’annuncio di un loro nuovo album porta sempre con sé le naturali e trepidanti attese (e gli auspici) che in genere si riservano agli eventi importanti. Del resto parliamo di uno dei pochi gruppi che sono riusciti nel tempo a mettere d’accordo quasi tutti: appassionati di post-punk, cultori dell’indie-rock, ammiratori di voci baritonali, melomani del cantautorato, ascoltatori distratti da successi radio pop-rock.
Negli ultimi anni i National hanno conquistato un pubblico sempre più vasto, sfondando quella grigia barriera ed etichetta fumosa di gruppo indie: la loro musica è penetrata nelle nostre case, poi nei nostri bar, infine persino nelle serie tv e nelle pubblicità, fino a diventare una speciale colonna sonora delle nostre vite. Probabilmente per qualcuno sono diventati persino una seccatura, ma è solo l’altro lato della medaglia del successo, lo stesso che potrebbe mettere in circolo un po’ di preoccupazione inconscia ogni volta che viene annunciato un nuovo album dei National. Preoccupazione forse immotivata, perché è difficile immaginare che faranno quel salto troppo lungo in avanti verso il rassicurante e più stantivo dei pop da anticamera.
I Am Easy To Find, il loro ottavo capitolo, non è un disco da inni rock ma una vera e propria piccola opera confessionale che usa il linguaggio particolare per toccare l’universale. Non è un caso che il regista Mike Mills (che ha co-prodotto il disco) abbia scelto proprio i National per dare un elegante tocco sonoro al cortometraggio I Am Easy To Find che accompagna il lancio dell’omonimo album. Il film è un delicato ritratto in bianco e nero che ci fa affondare in tutta l’amarezza della vita qualunque, tra una folla ordinaria di ipotesi, scarti di ipotesi e micro-avvenimenti. La protagonista (interpretata da Alicia Viklander) sembra quasi intrappolata in un corpo immobile, in una sola età che pare eterna e un unico volto, quasi a figurare che quel corpo sia in realtà un’anima, un mero anelito di vita che non cambia, trapassa il tempo, e si accompagna al resto dei volti umani che sfumano e appaiono a turno. Un’entità che semplicemente esiste. La musica dei National riesce a dare ritmo e metrica a una storia breve e universale (circa 20 minuti), e a sofisticare le atmosfere: ascoltiamo Matt Berninger cantare – stavolta non da solo, ma in bella compagnia – mentre la pellicola continua a scorrere, con l’effetto che la soundtrack riesce perfettamente a distendere tutta la grazia e la poesia della tragica casualità della vita umana che si rincorre sullo schermo in forma di frammenti e immagini.
Tra le artiste che fanno compagnia a Berninger a cantare troviamo signore voci come quelle di Lisa Hannigan, Kate Stables, o vere e proprie apparizioni sonore come l’evanescente presenza di Sharon Van Etten in The Pull Of You. La voce calda di Gail Ann Dorsey si insinua nel pezzo che apre il disco, You Had Your Soul With You, come aperitivo sonoro di quel che ci aspetta. Quiet Light è una classica ballata alla National, una coda del discorso cominciato in Sleep Well Beast dove Berninger ha affrontato la parte oscura di una lunga relazione: il contraltare di voci femminili che lo accompagnano si incastra perfettamente nel percorso di indagine di Berninger, ed è quasi come se I Am Easy To Find lasciasse voce anche all’altra parte di questa oscura ricerca. La co-presenza di voci, e i testi verticali, creano un dialogo sonorizzato per tutto il corso del disco.
Non c’è Berninger da solo con i suoi mostri stavolta, ma tutta un’umanità di voci che si ricollega all’universale immaginario che anche Mills ha provato a raccontare nel film. A tessere lo sfondo sonoro di questa grande narrazione due musicisti garanzia di creatività come i fratelli Dessner. Dopo quasi vent’anni di attività i National hanno ormai trovato la chiave del proprio suono e la indagano con una certa sicurezza nei propri mezzi, tuttavia a ogni nuovo capitolo quel suono esce fuori raffinato, pur senza abbandonare le urgenze degli esordi. Così quando ascoltiamo la batteria che porta il ritmo e detta il tempo a Roman Holiday quasi siamo trascinati di nuovo a casa, verso tempi più oscuri e intimisti come quelli di Boxer. Di quell’epoca i National si portano ancora dietro oscurità e intimismo, tuttavia è più che naturale che la ricerca sonora sia andata verso la direzione di ampliare man mano il suo fiato. E nel passaggio da Beggars Banquet Records a 4AD questo discorso si è fatto via via più affinato.
I Am Easy To Find è un disco ambizioso, e lungo. L’ambizione è lampante in canzoni come Oblivions, dove Berninger duetta magnificamente con Mina Tindle sulle note di un pianoforte malinconico, ripetendo amaramente “I still got my fear”. L’effetto è terribilmente annichilente. “I know I am easy to find but you know it’s never me”: si può essere facili da trovare ma mantenere intatte le proprie paure inconsce, che continuano il loro assalto alla mente umana. I National hanno sempre saputo raccontare e sussurrare storie di démoni e tribolazioni di questa mente, e il messaggio che corre in sottofondo al nuovo album non è diverso: non saremo mai completamente salvi, anche quando tutti i nostri tentativi ci spingeranno in quella direzione.
Not In Kansas lo ribadisce con maggiore profondità: si tratta di un pezzo che improvvisa su Noble Experiment dei Thinking Fellers Union Local 282 per 6 minuti abbondanti, uno straniante esercizio di riscrittura e improvvisazione con un testo incisivo, dove Berninger si fa accompagnare da Lisa Hannigan, Kate Stables e Ann Dorsey in una speciale ninnananna dell’orrore che tira in ballo gli Strokes, Neil Armstrong e i REM. Siamo catapultati in un inferno, dentro un girone dantesco dove la musica procede ossessiva e ripetitiva, il tintinnio della chitarra ci porta in discesa giù dentro i segreti tremendi della mente umana: di contro le tre voci diventano la speciale compagnia che guida agli inferi, eroine virgiliane che tentano di salvare la mente perduta con i loro sussurri (“Time has come now to stop being human / Time to find a new creature to be”). Not In Kansas contiene tutti gli orrori che si porta naturalmente dietro una spietata litania, ed è probabilmente il pezzo dove i National si concedono più sperimentazione: non quella elettronica di Sleep Well Beast — che in parte gli aveva attirato addosso l’ingiusta critica di essere dei Radiohead-wannabe — ma un’originale divagazione che riesce perfetta proprio grazie al contro-canto delle tre co-protagoniste.
L’incastro di voci procede per tutto il corso del disco, e in So Far So Fast Berninger lascia ampio spazio a Lisa Hannigan di regalarci una performance vocale che è una stilettata al cuore. In The Pull Of You l’incastro possiede persino qualcosa di magico: una canzone densa, complicata e sincera, dove Berninger improvvisa uno spoken-word, e avvertiamo la voce di Sharon Van Etten insinuarsi sullo sfondo mentre la musica cresce in tensione fino a sconfinare in un lento incantesimo. Ma il pezzo che ci riporta diritti verso le soffici ed epiche ballate del gruppo è quello che chiude il disco, Light Years, probabilmente il vero e proprio singolo dei National di questo capitolo, un’invocazione al piano che raggela l’anima quando si avverte tutta la glaciale distanza degli anni (“And I would always be / Light years / Light years away from you“). Eppure, nonostante tutti questi Light Years di lontananze, I Am Easy To Find sembra essere il cuore del messaggio del disco. Non è difficile trovarsi, persino quando non è facile.
L’ottavo album dei National è un disco che va ascoltato più volte: probabilmente ci vorrebbe uno speciale decanter di suoni per lasciarlo stare un po’ all’aria aperta, farlo respirare e ri-apprezzarlo ancora. Un disco dalle corde intime che tocca strati emozionali a più dimensioni. Nel passaggio dallo strato epidermico a quello più profondo potrebbe capitare quello che più semplicemente accade quando chiudiamo gli occhi e lasciamo parlare solo la musica: l’abbandono. Eventualmente, la catarsi.
Qui il report dei concerti di Parigi e Londra dove i National hanno presentato in anteprima il disco