Vincere il premio Akatugawa non è per tutti e nel 2025 i giurati hanno reso la cosa ancora più palese, giudicando nessun candidato idoneo ed annullando l’assegnazione del premio. Rie Qudan ce l’ha fatta nel 2024 con il suo libro Tokyo Sympathy Tower (L’ippocampo, traduzione di Gala Maria Follaco), un libro che ha fatto rumore per il suo stretto rapporto con l’intelligenza artificiale sia a livello tematico, sia per l’utilizzo fattone dall’autrice stessa in fase di stesura.
La presentazione del romanzo come il romanzo scritto con Chat GPT è fuorviante, piuttosto il romanzo è scritto insieme a Chat GPT poiché il Bot è un vero e proprio personaggio che viene interpretato da sé stesso. In un tempo sospeso a cavallo tra esistenze reali e fatti mai avvenuti, Rie Qudan ci porta a Tokyo attraverso il tema dell’architettura. Il concetto stesso di architettura racchiude in sé tre elementi chiave del romanzo: quello linguistico, quello informatico e quello dedicato alla costruzione di una città in quanto elemento complesso di incastri e armonie.
L’architettura linguistica vede il suo nucleo svilupparsi all’interno della particolarità della lingua giapponese, nella stratificazione data dai tradizionali caratteri Kanji, dai caratteri semplificati Katakana e dalla colonizzazione linguistica degli alfabeti fonetici europei. Il nome da dare ad un’opera architettonica diventa un nodo di trasmissione del senso quando l’architetta protagonista si ritrova costretta a dover rifuggire i significati più profondi dell’impressione grafico-linguistica a vantaggio di una comprensione immediata di livello mondiale. Nasce così la Tokyo Sympathy Tower.
E così tra un discorso e l’altro sulla fondazione etica della Torre rispetto alla sensibilità umana e quella artificiale il libro ci porta di fronte alla tematica scottante del trattamento dei criminali, in quanto la torre non sarà altro che una gigantesca città carcere dove però tutti potranno vivere in armonia in una utopia della pena, fondata sull’analisi della possibilità stessa del crimine, sulle disuguaglianze, sociali, sulla classe sociale, sull’elemento casuale e caotico dell’esistenza.
Infine l’architettura in sé si dipana infine in un amplesso destinato al parto di una nuova società, dove il contraltare della torre come simbolo fallico è lo stadio mai creato per le Olimpiadi di Tokyo il cui progetto originale di Zaha Hadid ricordava un organo sessuale femminile destinato ad irradiare la città, e adesso destinato a partorirla nella sua simbiosi con la Torre in un tempo immaginario.

L’ambientazione del libro è molto rarefatta, composta da personaggi evanescenti e da un tempo sfilacciato che oscilla tra presenti, passati, futuri e dimensioni del mai-avvenuto: anche l’acciaio e il cemento, il concreto per eccellenza, vengono relegati nella dimensione dell’impossibile, nella dimensione del progetto irrealizzato.
Il progetto architettonico assume quindi una valenza fondamentale in quanto progetto fossilizzato, l’epoca dei rendering fa sì che anche il mai costruito sia sempre visualizzabile e che diventi una fonte di ispirazione e immaginazione: lo schizzo supera il reale, nel romanzo il fallimento di Hadid è più importante della Tokyo Skytree che pur esiste e domina realmente la capitale giapponese.
La dimensione dei personaggi è quella del tratteggio, tutti sembrano al servizio della città, della costruzione e di domande e risposte sulla questione del destino dell’essere umano che si ritrova a compiere il male – una dimensione che trasporta il lettore in un viaggio asimmetrico più simile ad un fluttuare sulla lettura che a quella che possa definirsi una vera e propria immersione.
Rie Qudan non ha timore di mettere le proprie parole e la propria lingua a confronto con i risultati della macchina creando forti momenti di contrasto, più di quanto un affidamento all’immaginazione avrebbe potuto fare. L’autrice non ha temuto di fare un passo indietro quando si è trattato di mettere in mano all’esistenza stessa dell’IA la sua produzione linguistica, generando un libro che forse per la prima volta si trova ad interloquire con qualcos’altro non generandolo, ma costringendo l’autrice a generare qualcosa che partisse da quella stessa produzione, una scelta che sicuramente le ha attirato addosso una forte attenzione polemica, ma che ha dimostrato anche una certa dose di coraggio in un tentativo di collaborazione e non sotto la paura della sopraffazione della parola scritta rispetto alla parola algoritmica.
Un piccolo libro per fare un viaggio in un Giappone che non c’è, ma anche per avvicinarsi a qualcosa che volenti o nolenti finirà per presenziare nelle nostre vite per molto tempo.