Aveva ottant’anni, e dagli anni Cinquanta era considerato il non plus ultra dell’attore cinematografico. Marlon Brando se n’è andato per un’insufficienza cardiaca il primo luglio 2004, rinchiuso tra il suo mito e le sue tragedie familiari: morti violente, suicidi e tanto altro avevano caratterizzato gli ultimi vent’anni della sua famiglia, portandolo ad esasperare la sua già notevole indole solitaria e scorbutica che, però, mai ha influito sul suo percorso professionale.
Capace di risultare più ribelle di James Dean, più ambiguo di Montgomery Clift, all’occorrenza più elegante di Cary Grant, più sexy di Sean Connery, più macho di Charlton Heston, non aveva mai nascosto il suo odio profondo per l’establishment hollywoodiano e per lo star system che ha sempre ammesso di sfruttare per fini di lucro una volta accortosi del marcio che lo caratterizzava.
Nel ’47 portò a teatro il personaggio di Stanley Kowalsky in Un tram che si chiama desiderio diretto da Elia Kazan, e folgorò pubblicò e critica con una veemenza ed un’istintività fino ad allora sconosciute in ambito recitativo. La conferma di queste doti arrivò con la trasposizione cinematografica del testo teatrale di Tennessee Williams e permise alla platea mondiale di assistere alla nascita di un mito.
L’esordio sul grande schermo, eccellente tra l’altro, c’era stato nel ’50 con Uomini-Il mio corpo ti appartiene di Fred Zinnemann, in cui interpretava un reduce che cercava di riadattarsi alla vita civile; questo film, non molto considerato dalla critica, servirà ad aprire un decennio memorabile per Marlon Brando, un decennio memorabile per la storia del Cinema.
Dopo l’exploit del ’51 con Un tram che si chiama desiderio, nel 1952 il regista Kazan ancora una volta sceglie Brando per il ruolo del protagonista: stavolta il personaggio è quello del rivoluzionario messicano Emiliano Zapata in Viva Zapata!, magistrale interpretazione per un film imperniato sul tema del potere che corrompe tutti e sulla contraddizione della rivoluzione (talvolta) necessaria, ma (spesso) tradita dai suoi capi.
Nel ’53 Brando è Marco Antonio nel Giulio Cesare di Joseph L. Mankiewicz e la sua orazione funebre per il tiranno diviene da allora d’esempio per tutti gli attori alle prese con il dramma shakespeariano.
Il ’54 è l’anno della consacrazione definitiva e della punta massima di camaleontismo dell’attore: in successione interpreta Napoleone Bonaparte in Désirée di Henry Koster, il drammatico scaricatore di porto Terry Malloy in Fronte del porto di Elia Kazan, ed il mitico Johnny, capo di una banda di teppisti in motocicletta, in Il selvaggio di Laslo Benedek. Nel ‘ 55 il regista Mankiewicz riesce a coinvolgerlo nel progetto del musical Bulli e pupe, dandogli la parte del proprietario di una sala da gioco clandestina e cavandogli fuori le celate doti di cantante-ballerino, tutt’altro che scarse visto il confronto che riesce a tenere con il compagno di duetti Frank Sinatra.
Dopo aver raggiunto la punta più alta della sua recitazione Brando si impantana in scelte certamente coraggiose ma quasi mai soddisfacenti e all’altezza della sua fama: dalle ambientazioni orientali di La casa da tè alla luna d’agosto e Sayonara alle interpretazioni in uniforme per I giovani leoni e Missione in Oriente; tra queste uscite incerte spiccano alcune sorprese come la pellicola che lo vede far coppia nel ’59 con Anna Magnani, Pelle di serpente di Sidney Lumet, e l’esordio alla regia nel 1960 con il western I due volti della vendetta di cui è anche protagonista.
Gli anni ’60 mostrano Marlon Brando alle prese con un tentativo di reinventarsi di volta in volta riuscendoci pienamente come primo ufficiale britannico ne Gli ammutinati del Bounty di Lewis Milestone e come massiccio sceriffo ne La caccia di Arthur Penn, e prendendosi gioco di sè stesso più che fallendo con pellicole tipo I due seduttori e A sud-ovest di Sonora.
Nel 1967, grazie a La contessa di Hong Kong, c’è l’incontro con Charlie Chaplin, qui alla sua ultima regia, e con Sofia Loren; il film è atipico sia per la storia passata del regista che per quella degli interpreti, ma forse per questo è significativo anche perché avvolto da una romantica malinconia eccessivamente bacchettata allora dagli addetti ai lavori. Il declino di Brando, nonostante questa pellicola, pare però inarrestabile, anche perché arrivano dei clamorosi flop ad affossarlo: Riflessi in un occhio d’oro (1967), Candy e il suo pazzo mondo (1968), La notte del giorno dopo (1969).
In questo momento di crisi professionale arrivano due grandi registi italiani a risollevare la stella e a servirsi del suo genio per dare vita a veri e propri capolavori: nel 1969 Gillo Pontecorvo lo chiama ad interpretare l’agente britannico William Walker in Queimada, portandolo, a diciassette annidi distanza da Viva Zapata!, ancora a confrontarsi con gli ambienti rivoluzionari stavolta alle prese con un personaggio ambiguo e cinico, interpretato con una naturalezza ed un’espressività coinvolgenti. Tre anni dopo, nel 1972, è Bernardo Bertolucci a volerlo per Ultimo tango a Parigi: Marlon Brando mette in scena la figura di un vedovo americano di mezza età, mostra la sua disperazione, la sua indifferenza a ciò che lo circonda, la sua voglia di farla finita, ma riesce a trasmettere anche sensualità, eccitazione, morbosità in quegli incontri con la conturbante sconosciuta pariginainterpretata da Maria Schneider.
Nello stesso anno del discusso capolavoro di Bertolucci, Brando dà dimostrazione della sua grandezza, del suo istrionismo: Francis Ford Coppola lo dirige ne Il Padrino, assegnandogli la parte del protagonista Vito Corleone e rimanendo ipnotizzato, come tutto il resto della troupe, dalla capacità dell’attore di immedesimarsi nel personaggio inventandolo con una maestria capace di renderlo unico per la sua fisicità e la sua parlata.
Nulla è più lo stesso nel Cinema dopo Il Padrino interpretato da Brando e naturalmente l’attore avverte non poche difficoltà nel girare altri film senza richiamare alla pubblica memoria quel personaggio: ed infatti a parte un paio di pellicole, Improvvisamente un uomo nella notte e Missouri, ed un cammeo strapagato in Superman, negli anni ’70 non fa altro. Fino a quando non è di nuovo Coppola a richiamarlo: nel 1979 il regista gira Apocalypse now, un film straordinario e travolgente che prende spunto dal romanzo di Conrad Cuore di tenebra. Marlon Brando interpreta il colonnello Kurtz e per oltre un’ora e mezza il personaggio in questione è semplicemente un’ombra che avvolge i protagonisti della vicenda, una misteriosa figura che terrorizza solo se si pronuncia il suo nome…ed infatti….!
L’attore ancora una volta sfida il proprio mito reinventadosi, sbeffeggia le regole recitative che lui stesso aveva imposto con le sue interpretazioni vent’anni prima: la sua maestosità è unica, la religiosità dei suoi movimenti e dello sguardo che sbuca dal buio affascina e spaventa allo stesso tempo ed il modo in cui alla fine del film sussurra “horror…horror…” mette i brividi.
Qualcuno da quel momento gli imputa di girare le spalle al grande Cinema evitando di proporsi alle nuove generazioni di cineasti e rifiutando non poche proposte dai suoi vecchi collaboratori europei; ma le scelte, in quegli anni e in quelli che seguiranno, saranno imposte da una devastazione psichica dovuta ad una tranquillità che vede sempre più irraggiungibile per colpa delle tragedie familiari che man mano lo colpiscono, una devastazione che cerca sempre di proteggere dal cannibalismo di un mondo che non ha mai potuto soffrire e che da sempre costruisce stelle per poi farle cadere alla prima occasione.
Diventa grasso, quasi obeso, si rinchiude in sé stesso rintanandosi nella sua villa-eremo in Mulholland Drive e qualche volta nella sua isoletta a Tahiti, ma di tanto in tanto torna a recitare o per sfruttare l’ambiente spillando una marea di quattrini o per mantenere promesse fatte ad amici.
In alcune di queste pellicole resta l’impronta del grande Marlon Brando: in Un’arida stagione bianca di Euzhan Palcy la sua apparizione “avvocatesca” è da applausi e convince la maggior parte del pubblico che Brando ha ancora tantissimo da regalare alla Settima Arte. Ma tra un Torquemada, in Cristoforo Colombo – La scoperta di John Glen, ed un simpatico psichiatra sull’orlo della pensione, in Don Juan De Marco maestro d’amoredi Jeremy Leven, non si ritrova altro che un attore a riposo che al massimo cerca di divertirsi confermando questa teoria in film come Il boss e la matricola di Andrew Bergman, in cui fa la parodia del suo mito, ed In fuga col malloppo di Yves Simoneau. Anche le altre interpretazioni degli anni ’90, L’isola perduta di John Frankenheimer e Il coraggioso di Johnny Depp, lasciano perplessi: nonostante la presenza leggendaria di Brando, manca quella capacità ipnotica e unica che aveva nel riempire lo schermo e nel valorizzare storie che non sempre in sé erano memorabili.
Nel 2001 regala l’ultima forte emozione: in un film tutt’altro che originale, The score di John Frankenheimer, recita accanto a Robert De Niro ed Edward Norton ed i tre danno vita ad un confronto generazionale, ad un confronto fra tre diversi modi di recitare, che rimarrà nella storia; storico e memorabile il dialogo, a bordo della piscina, tra Brando e De Niro, due dei più grandi attori della storia del Cinema americano.
Non era una persona facile Marlon Brando, non era facile lavorare con lui, non era facile vivere con lui. Gli aneddoti si sprecano ed alcuni di questi sono quanto mai significativi: ha vinto due Oscar nella sua carriera, per Fronte del porto e per Il Padrino, e questa seconda statuetta, nel 1972, non andò a ritirarla per protesta mandando al suo posto la compagna pellerossa che di fronte allo sbalordito pubblico degli Academy fece un discorso sulle pietose condizioni dei Nativi Americani; qualche anno dopo gli Academy lo chiamarono a premiare con l’Oscar alla carriera uno dei registi con cui aveva lavorato di più, Elia Kazan, ma lui si rifiutò dicendo che era un traditore perché ai tempi del maccartismo era stato uno dei più loquaci collaboratori della commissione.
Altro aneddoto decisamente emblematico quello raccontato da Gillo Pontecorvo: durante le riprese di Queimada fece ripetere una scena a Brando ben quarantuno volte, ed alla quarantunesima la recitazione fu talmente straordinaria da portare l’intera troupe ad applaudire, cosa che mai gli era capitata di vedere nella sua carriera di regista.
La straordinaria personalità di quest’uomo adorato dalle donne per una bellezza atipica ostentata in appena 168 centimetri di altezza, ha condizionato generazioni e generazioni con le sue maschere di ribelli e romantici, con il suo modo di appropriarsi di ogni personaggio ridicolizzando chiunque dopo di lui si azzardi ad interpretarne uno simile (fa tenerezza il Russel Crowe di Master & Commander al confronto del Brando de Gli ammutinati del Bounty), con la sua voce strana, quasi un falsetto devastante, oscuro, brillante e sensuale all’occasione (consiglio personale è quello di rivedere i suoi film in lingua originale ora che la tecnologia DVD lo consente, su tutti Un tram che si chiama desiderio – Fronte del porto – Il Padrino – Ultimo tango a Parigi – Apocalypse now), con le sue scelte controcorrente sempre distanti dalle ipocrite leggi di Hollywood, con la sua storia personale…
Marlon Brando poco prima di morire ha detto: «Ho passato tutta la mia vita a cercare di conoscere me stesso. Ma un uomo è spaventato quando si trova faccia a faccia con se stesso. Io almeno lo sono!»; il mito che ci ha regalato con i suoi film noi lo conosciamo e lo avremo sempre a disposizione; per l’uomo, forse basta una frase del genere a far capire l’ambigua personalità che lo ha accompagnato fino alla fine.