And skip out for beer during commercials, because / the revolution will not be televisited
Gill Scott-Heron
Giunto ormai al decimo lungometraggio di una carriera iniziata quasi trent’anni fa, con One Battle After Another Paul Thomas Anderson da un lato realizza il suo film più mainstream, dall’altro non smette di interrogarsi su uno dei temi che, in filigrana, attraversa la sua intera filmografia.
Costato circa 130 milioni di dollari (per intenderci, Il Petroliere era stato realizzato con meno di un quarto) e accompagnato, di conseguenza, da un sistema di promozione mai così imponente per il regista della San Fernando Valley, Una battaglia dopo l’altra prende il nome da un articolo comparso nel New Left Notes a firma del gruppo politico The Weather Underground subito dopo i disordini a Chicago del 1969, nel quale appariva la frase «From here on out, it’s one battle after another» (è ai Weathermen che si unisce Merry, la figlia adolescente dello Svedese in Pastorale Americana di Philip Roth).

Nato, inizialmente, come tentativo di trasposizione cinematografica di Vineland di Thomas Pynchon – come già magistralmente avvenuto per Inherent Vice – One Battle After Another attinge certamente dalle pagine del romanzo pubblicato dal grande scrittore americano nel 1990 ma le utilizza più come scheletro del racconto, assorbendone sfumature e paranoie.
Là dove Vineland copriva un orizzonte temporale che, partendo dagli anni Sessanta, arrivava alla Presidenza di Ronald Reagan, One Battle After Another sposta il racconto in avanti di circa trent’anni con la seconda parte ambientata in un presente prossimo e una cornice/introduzione legata a fatti avvenuti sedici anni prima.
Una battaglia dopo l’altra, in sintesi, racconta le gesta di un gruppo di rivoluzionari – il French ’75 – che in un’epoca a cavallo tra i Novanta e i Duemila mette in campo una serie di azioni di boicottaggio contro un non ben precisato governo fascista. Fin dalla prima inquadratura – che ci catapulta direttamente sulla scena permettendoci di seguire i “terroristi” impegnati nei sopralluoghi per il loro prossimo obiettivo – l’atto creativo della rivolta si mescola a quello della coppia di ribelli formata da Leonardo Di Caprio e Teyana Taylor. Quest’ultima, ballerina, coreografa e cantante – suo il bellissimo K.T.S.E. del 2018 per la GOOD Music di Kanye West – già ammirata in veste di attrice appena due anni fa come protagonista assoluta di A Thousand and One di A.V. Rockwell.

È chiaro che in un momento storico così drammatico – con gli Stati Uniti d’America rappresentati da un governo gretto, suprematista, intrinsecamente fascista come quello di Donald Trump – è difficile non intravedere nel potere da combattere di One Battle After Another una trasfigurazione delle angosce contemporanee. Proseguendo, in fondo, sia il discorso di Inherent Vice che quello di Vineland sul tradimento della grande stagione delle lotte e delle utopie degli anni Sessanta.
Va detto, del resto, che – di là dalla singola trama – tutto il cinema di Anderson anche quando non strettamente politico (lo è, ad esempio, ne Il Petroliere, in The Master, in Vizio di Forma) ha sempre introiettato la necessità di una grande valenza politica e sociale, offrendosi come una riflessione possibile sul senso delle dinamiche di potere nella storia degli Stati Uniti d’America.
Eppure, è lo stesso Paul Thomas Anderson a offrire una ulteriore chiave di accesso non alternativa ma certamente capace di approfondire il discorso intorno al suo film dandogli anche lo scarto di una portata universale. Proprio Anderson, infatti, ha raccontato che Una battaglia dopo l’altra è un progetto cui lavorava già da vent’anni ma che la spinta al suo compimento e alla sua realizzazione è arrivata nel momento in cui è riuscito a inserire un forte elemento emotivo all’interno della storia.

Teyana Taylor interpreta Perfidia “Beverly Hills”: afroamericana, figlia di attivisti, bellissima e determinata, assetata di vita e rivolta. Leonardo Di Caprio è Pat Calhoun, detto “Ghetto Pat” e “Rocketman”: un ragazzo con minori ambizioni, affascinato dall’idea di contrastare un sistema fascista, ingiusto e dedito alla segregazione degli immigrati “clandestini” ma – apparentemente – più debole nelle sue convinzioni, meno massimalista della sua compagna. Dall’amore tra i due nascerà una bambina, Charlene, innesco emotivo dell’intero film.
Le strade di Perfidia e Pat incrociano, però, quella del colonnello Steven J. Lockjaw – un impressionante Sean Penn – destinato a sparigliare completamente i loro piani fino a compromettere l’evolversi della loro storia. Senza scendere in ulteriori dettagli, il French ’75 – come troppo spesso accade purtroppo alle utopie – andrà in mille pezzi e con un salto temporale troveremo per la seconda parte del film Pat Calhoun con una nuova identità – ora si fa chiamare Bob Ferguson – insieme alla figlia sedicenne Willa – interpretata dalla grande sorpresa Chase Infiniti (classe 2000).

Ed è proprio nel rapporto padre/figlia tra Bob e Willa che si sviluppa il nocciolo del tema politico del film. Tutto il cinema di Paul Thomas Anderson sembra ormai delinearsi come un incessante dialogo tra padri e figli, spesso putativi, in contrasto tra loro, eppure, in costante ricerca gli uni degli altri, un filo nascosto che tiene cuciti insieme i tessuti diversi della sua ormai lunga filmografia.
Sono padre e figlio Philip Baker Hall e John C. Reilly nell’esordio Sydney/Hard Eight come Burt Reynolds e Mark Wahlberg in Boogie Nights. Magnolia – nel suo complesso intreccio – è ancora storia di padri: dal protagonista Frank T.J. Mackey con la sua lunga strada per arrivare al letto del padre morente (Tom Cruise ed Earl Partridge) al piccolo Stanley sfruttato nei concorsi a quiz per bambini fino al padre/padrone Philip Baker Hall e la figlia Melora Walters.
Anche i due grandi film “centrali” nel corpus di Anderson – ritratto in widescreen di un certo cuore arido e selvaggio degli Stati Uniti d’America – sono imperniati sul medesimo rapporto. Ne Il Petroliere non c’è soltanto la relazione del piccolo H.W. Plainview nei confronti del “padre” Daniel – incarnazione del Capitalismo – ma anche quello tra lo scaltro Eli Sunday (Paul Dano) e Daniel Day Lewis si presenta come un rapporto padre/figlio. Tema centrale anche nel successivo The Master dove uno straordinario Philip Seymour Hoffman – predicatore ante litteram ispirato al fondatore di Scientology – costruisce con il reduce allucinato Joaquin Phoenix una dinamica talmente complessa e profonda da andare oltre quella con i suoi stessi figli.

Licorice Pizza è addirittura di per sé incarnazione del rapporto padre/figlio, a un tempo omaggio all’amico scomparso Philip Seymour Hoffman e regalo d’autore per la prima prova nella carriera del figlio Cooper (il Gary Valentine protagonista della pellicola).
Nella cesura tra la prima e la seconda parte – che con il primo piano sul volto di Chase Infiniti lascia pochi dubbi sull’elemento intorno al quale ruota l’intero film – è come se assistessimo al lancio dell’osso in 2001 Odissea nello Spazio che – in un solo fotogramma – si trasformava nella stazione spaziale che danza sulle note del Sul bel Danubio blu di Strauss.
Se lì – e Anderson ama talmente Kubrick da averlo apertamente citato a più riprese come nella prima inquadratura de Il Petroliere – era chiaro il nesso tra l’intuizione della scoperta da parte dell’ominide e le possibilità illimitate della scienza, qui la piccola Charlene contiene già la prefigurazione della donna che sarà, la pesante eredità della prole, la natura di figlia come possibilità di futuro e, insieme, di un cambiamento mai indolore, deflagrazione, piuttosto, e innesco di un disordine destinato a mescolarsi con la natura di chi l’ha messa al mondo.

In una seconda parte frenetica e quasi pantagruelica, dominata da azione e inseguimenti che – in una dimensione per la prima volta più smaccatamente commerciale – lo vede in grado di giocare con i codici del genere, Anderson spinge però sull’acceleratore del talento autorale quasi che volesse minare con delle microcariche la struttura dell’intrattenimento per rivestirla di un valore differente.
Calandosi molto più in profondità rispetto alla scelta di un racconto diretto soltanto contro un’America Oggi (non va dimenticato che un autentico discorso sul rapporto padri/figli Anderson lo ha attuato in prima persona con il maestro Robert Altman dal quale non solo mutuerà poetica e stile ma di cui dirigerà de facto l’ultimo film – Radio America) P. T. Anderson mantiene comunque vivo l’orrore verso l’oscena e ignobile miseria di chi oggi detiene il potere negli Stati Uniti d’America, scegliendo una rappresentazione dai toni grotteschi attraverso uno sguardo che si posa sul ridicolo impersonificato da Lockjaw e i Pionieri del Natale, non concedendo al “nemico” nemmeno per un momento il privilegio di una labile forma di dignità.

Il passato che si presenta inaspettatamente permette a Paul Thomas Anderson di concentrarsi sulla necessità di non abbassare mai la guardia nei confronti delle continue storture del potere. Certamente quello incarnato dallo Stato americano e dai suoi violenti quanto risibili tutori ma va detto che nemmeno il mondo degli attivisti del French ’75 può dirsi immune da pericolose debolezze: impigrimento, appannamento degli ideali, finanche il tradimento sono alcune delle colpe attraverso le quali i rivoluzionari di allora hanno spento il loro fuoco.
Che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli sembra essere il capovolgimento sul quale è centrato Una battaglia dopo l’altra. Quasi che, per converso, possano essere i figli, liberandosi – finalmente – a salvare i padri dai carichi, se non delle loro colpe, certamente delle loro umane debolezze.
Il risveglio di Bob Ferguson – per certi aspetti il meno dotato, il meno idealista tra loro – passa, sì, per l’urgenza di fronteggiare il pericolo cui la figlia è improvvisamente esposta ma allo stesso tempo si nutre della forza giovane che la anima.

Willa è già un’adolescente consapevole. Quella che il padre ha provato in ogni modo a proteggere dall’esterno – nel film torna ripetutamente il concetto della fiducia – è una giovane donna in grado di fare le sue scelte. Se la madre abitava almeno in parte un mondo ancora stereotipato (l’amica guerrigliera Jungle Pussy è la perfetta sintesi tra un’estetica blaxploitation, un’eroina tarantiniana e una seguace di Sly and the Family Stone) Willa è infinitamente più libera. Le sue amicizie prescindono dal concetto di appartenenza del Novecento attraversate come sono da forme totali di libertà – di corpo, di genere, di colore; mette in atto le prime piccole – e rischiose – ribellioni nei confronti del padre ma, al contempo, è pervasa dal senso di disciplina, dal ritmo del suo respiro insegnatole da uno dei personaggi più divertenti, affascinanti e autentici del film: il sensei di karate Sergio St. Carlos interpretato da un Benicio Del Toro in stato di grazia.
Il suo “ocean waves” – sorta di invito tra un mantra new age e il monito di Eraclito a richiamare la calma del ritmo delle onde dell’oceano per fronteggiare la devastazione morale e politica intorno a sé – è quasi una terza via a indicare il recupero di un rapporto con la Resistenza che possa passare per un aiuto concreto e non per replica sterile e fallimentare dei movimenti che furono.

Bob Ferguson è diretta emanazione non solo del protagonista di Vineland ma – cinematograficamente – discende dal Drugo (The Dude) de Il grande Lebowski dei fratelli Coen: copia sbiadita del ribelle che fu, incapace di fare altro che trascorrere le sue giornate a bere con gli amici, a fumare di continuo, perennemente in vestaglia e iperprotettivo verso una ragazza che, ormai adolescente, cerca di ritagliarsi col medesimo spirito materno una vita che sia unicamente sua. Eppure, attraverso l’irruzione del passato nelle loro vite troverà anche lui non solo una via di riscatto ma una sua identità più autentica capace di strappargli di dosso anche l’inutilità dei riti e delle forme di un sistema che non ha più senso di esistere.

Questo confronto tra padri e figli, questo dialogo tra passato e presente è il vero motore del film, la scintilla che determina il corso degli eventi.
Lo stesso sensei è non solo padre di alcune ragazzine ma di un intero mondo sotterraneo di “clandestini” messicani cui dà una mano per superare la frontiera. Ancora una volta, per Anderson, padre non è solo colui che mette al mondo ma chi dentro quel mondo offre gli strumenti per sopravvivere. Le scene che vedono protagonista Del Toro sono tra le più belle del film: piani sequenza che lo inseguono nei corridoi di un labirintico centro immigrazione capovolto mentre sui tetti dei palazzi una squadra di skaters – come tanti Gavroche de I Miserabili – aiutano Bob a fuggire.

Di fronte all’ottuso e cieco mondo della politica bianca e destrorsa, One Battle After Another mette al centro un rinnovato valore di solidarietà. Il Convento delle Suore del Sacro Castoro (una delle novizie è la primogenita di Paul Thomas, Pearl Minnie) – che sembra uscito da un murale di Diego Rivera – e la rete di soccorso del sensei Del Toro sono parte di un sistema di sostegno che prova a lottare, abbandonando le formule sclerotizzate del passato che – sembra dirci P. T. Anderson – rappresentano un ulteriore ostacolo a una nuova visione della lotta.
Il rapporto tra Di Caprio e Chase Infiniti è una freccia tirata in alto in attesa di trovare il suo bersaglio. La messa in discussione di tutto ciò che si credeva vero è l’elemento destabilizzante attraverso cui costruire un futuro, è legame e apertura, è la realizzazione di un nuovo codice anche linguistico, di un superamento della stantia replica del passato per approdare ad altre battaglie. Esaurita la spinta dei padri, sembra dirci Paul Thomas Anderson – a sua volta papà di quattro figli – ciò che deve essere lasciato in eredità è la fiducia nella certezza che esisterà sempre un ideale per cui combattere e che nessuna fuga dal mondo può allontanarci dal tentativo – almeno da questo – di cambiare il mondo.