Pubblichiamo un estratto del nuovo romanzo di Eduardo Savarese, Una piccola luce, edito da Alter Ego. Romanzo di formazione e avventura, dai tratti distopici e fantapolitici, senza dimensioni temporali. È la storia di Bibo, un bimbo orfano che non ha memoria. Qui sotto trovate il prologo e il primo capitolo del romanzo.
Dopo la Seconda Venuta del Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, il mondo si divise in città protette da grosse mura, ciascuna con una porta per l’ingresso e una per l’uscita. Il Cristo aveva trovato condizioni così disperate che aveva deciso di rimandare l’Apocalisse, e le città, per la paura di morire per sempre, si chiusero in se stesse.
La Seconda Venuta provocò traumi e distruzioni. Il terrore, esploso allo squillo delle trombe del Giudizio, intorbidì la memoria della civiltà precedente. Gli stili di vita si capo- volsero e luoghi, un tempo ricchi e protervi, furono ridotti in miseria. Le categorie del pensiero e la chiara distinzione tra realtà e irrealtà sbiadirono, alla ricerca di nuove definizioni. Centri di potere inediti presero il sopravvento con regole e prassi rigide che diffidavano di ogni spontanea espressione del sentimento.
Gli esseri umani, all’angoscia della fine, reagirono creando un rigore che mascherava l’odio per la libertà di coscienza.
A seguito dei drammatici avvenimenti che si verificarono, molti restarono orfani di entrambi i genitori. Bibo, uno di loro, divenne un figlio della Grande Adozione, un’istituzione che aveva scelto di abitare un’isola antichissima di terra rossa, altissime montagne e mari burrascosi, ora caldi ora gelidi.
IL CASTELLO
in un castello, sì, in un grande castello ti sarebbe piaciuto vivere insieme, tanti corridoi, vetrate e balaustre, colori diversi in ogni camera, camini giganteschi come stanze da bagno, d’estate, quando sono spenti, quando sono vuoti, freschi per sostarci durante una partita a nascondino – tu mi hai insegnato come recuperare l’infanzia, a non smettere di giocare: chi ha contato viene a cercarti, i passi si avvicinano al camino grande, grande come una stanza da bagno
io ti dico che il castello è difficile da mantenere, da tenere pulito – hai la fissazione della pulizia, però non sei così fissato da impedire ai gatti di starsene sulle nostre poltrone, sulle nostre coperte, schiere di gatti come schiere di angeli, maculati tigrati pelo lungo pelo corto, neri come la pece bianchi come il giglio
il castello, in un castello avresti, avevi, anzi hai, sì, hai, ecco, al presente, hai i roseti che ti piacciono tanto, le fresie che ti impegni a coltivare, io non sono capace, non sono paziente, la pace vuole la pazienza, la vita vuole la pazienza, il respiro profondo e completo dall’inizio alla fine, dal cranio alla pianta dei piedi
nel castello ospitiamo gli amici e i nemici, i conosciuti e gli sconosciuti, i pellegrini che arrivano nelle notti di tregenda, che non sanno dove stanno andando – bussole rotte nodi spezzati, le penne non funzionano, i fogli imbevuti di pioggia, i muscoli doloranti per i tanti chilometri percorsi zaino in spalla, con la valigia, con sacche e borse di ogni genere
i pellegrini sostano da noi, il camino gigantesco pieno di legna arde, la vampa del fuoco stride, scioglie il fango alle scarpe, accarezza i peli di barbe sfatte, i nostri occhi, i loro occhi fermi sul fuoco, in un grande silenzio, nel nostro castello c’è sempre silenzio, un silenzio oscuro e umido, profondo come un pozzo
quei pozzi che servono a nasconderti quando i nemici t’inseguono, a proteggerti contro chi cerca la tua morte, un pozzo buono, non un pozzo dove cadi e poi non esci più alla luce, dove precipiti e muori, no
il castello col camino e il fuoco, e le schiere angeliche dei gatti, accoglie tutto, dà ricetto a tutti, in silenzio i nostri visi invitano a entrare, quasi mai sorridono, non ci pare bene sorridere, restiamo seri, seri come di fronte a tutte le cose serie, non tristi, non pensosi, semplicemente serietà, semplicemente pudore, ecco, questo castello di pudori essenziali, l’hai voluto tanto, ed eccolo, con la sua biblioteca che scoppia di libri, tutti scritti in lingue che non sappiamo leggere, non più
la tua mano nella mia mano
somewhere a place for us
le voci cantano, sì, tu mi sorridi, non so fare a meno, ogni tanto, delle voci che cantano, non so nominarle, non so cosa cantano, ma le loro voci, i loro suoni mi bastano a gioire, tu invece sei sempre silenzioso, operoso con le cesoie attorno alle rose, con le mani capaci di impilare i ciocchi di legno al loro posto nella grande vasca del camino, io butto bucce di mandarino così la legna arde profumando di piacere l’aria, stagioni vanno e vengono, che tornano, e portano la disciplina di cui abbiamo bisogno
in questo castello non si mangia più, non si beve più, non ci importano cibi e bevande, siamo dissetati da altro, non è una sostanza che si vede o si tocca, ma questa sostanza c’è, ormai scorre in noi, sì, proprio come il sangue, al posto del sangue, tu dici, è così, sei saggio, tu hai sempre ragione,
quello che conta in questo castello sono i pensieri e gli atti, le volontà e le preghiere, gli spazi e le persone che camminano per i corridoi, prendono il sole sulle terrazze, leggono i libri misteriosi della biblioteca nei padiglioni, nelle pago- de del giardino, nei giardini d’inverno, tu vuoi il castello, io desidero il giardino d’inverno, come Odette Swann o una delle Guermantes… loro continuo a ricordarle
sappiamo che esiste la memoria, la categoria concettuale della memoria, ma la nostra memoria è stata riversata nella vasca del camino, e per scherzare ho sparpagliato sali da bagno, non nell’acqua, ma nel fuoco, hanno scoppiettato arzilli, sorpresi, molto più reattivi delle miti, ricettive bucce di mandarino
il castello può raccogliere innumerevoli parole, le prende e le carezza, gli tira le orecchie dolcemente, le spazzola come velluto, come le pellicce delle nostre schiere feline, le ammorbidisce come un capo d’abbigliamento tessuto da mani metafisiche, le parole qui sono calde d’inverno, fresche d’e- state, le parole che arrivano qui sono piene di orrore per i dolori iniqui, sono come colpe che non vengono lavate mai, non perché manchi il perdono, tu hai voluto che le rose fossero concimate di perdono, io sono scettico, ma lo so, questo lo so, che la colpa vuole il perdono, che le parole arrivano nel nostro castello per celebrare un sacrificio, un sacrificio di luce, di amore, di pace, di verità, un sacrificio tribale di tutte le idee platoniche, proprio tutte, tutte quan- te, sopra un altare di lapislazzuli e avorio dove siedono, sediamo, bambini silenziosi e seri
ti intravedo, amore mio. Compari dietro una tenda, riconosco il gomito che sporge sulla ringhiera, c’è il tuo sorriso diretto verso di me mentre leggo i libri nella biblioteca del castello senza capirci una parola, senza intendere una lette- ra, tu sorridi dal roseto con le cesoie in mano
quando mi avvicino scompari, ti chiamo non rispondi. Ci sei, sì, lo so, ci credo, ti credo, confido nella tua protezione nei miei riguardi, qui in questo castello. E so che sei tu ad accendere il fuoco nel camino gigantesco dove nuoto come in una vasca olimpionica, cosparso di essenze dall’Estremo Oriente che stanno lì, nei vasi, per essere distesi sulla tua pelle bruna, li usi quando sono lontano, va bene così, ma ti cerco, ti cerco e non ti trovo, ti intravedo come il capino fluorescente del pappagallino verde della signora che vive sola la sua vedovanza in una casa remota, il pappagallino è scappato, le fa il dispetto di volersi libero senza uscire dalla casa, senza fuggire dalla finestra, fuggiasco e prigioniero si lascia chiamare e invocare, risponde ai richiami solo da una stanza a un’altra, così sei tu, pappagallino, in un ca- stello meraviglioso e troppo grande
le persone dovrebbero mettersi a parlare senza conoscersi come norma e regola. Anche in posti silenziosi… magari intorno a un lago, di notte, tra le lucciole. Bello, vero? Le lucciole dell’infanzia quasi ovunque estinte
oppure nel cuore della notte metropolitana, infrasettimanale, proprio nel cuore dico, di martedì alle quattro del mattino, i camion della spazzatura sono appena andati via, e le due persone, ben vestite, profumate, pettinate con cura, lunghe ciglia immerse nel mascara, ombretti sontuosi che tramutano le palpebre in cortine bizantine: basta una panchina, anche vecchia, scalcagnata, le cose usurate della nostra vita decadente, dove sedersi, l’uno di fronte, l’una accanto, o di spalle, schiena contro schiena come aderendo a una parete immaginaria sottile, quasi una seta, un cartongesso esile. E lì, nel silenzio, parlare, sentire le parole che si soffermano sulle labbra prima di uscire, ma senza vezzi, senza indugi di corteggiamento, esitano perché vorrebbero essere quelle giuste, arrivare a destinazione, mette- re in comune questo cuore desolato, assetato di una pietà rituale amica, non distante, non troppo esigente
«Sono felice».
«Anch’io».
«Tu, perché? Perché sei felice?».
«Ho alleviato una sofferenza».
«Di chi?».
«Questo non lo ricordo. Non so il chi».
«Ti manca il personaggio».
«Purtroppo… o per fortuna. Ma so il come».
«E il quando?».
«Ah ah, no, purtroppo la cronologia non è il mio forte. Il tempo non mi ha mai convinto fino in fondo».
«Grande liberazione, deve essere. E il come, come fu?».
«Ci sono due zoccoli vecchi, sporchi. Lasciati uno accan- to all’altro sulla sponda del lago dove si scende con agio. Non sono gettati, sono disposti ordinatamente. E allora li ho sfiorati, non ho osato sollevarli da terra, però li ho sfio- rati, e ho compreso che il proprietario era andato al centro del lago, a morire».
«Oh… la tristezza dei laghi…».
«Si dice che il lago ti attira giù…».
«Mi fai venire i brividi. Dove starebbe il sollievo?».
«La sorella del proprietario degli zoccoli lo cercava da giorni».
«Ma tu le hai restituito un morto».
«Ti sembra poco?».
Le due persone si alzano dalla panchina, si allontanano dalla sponda del lago. Si avvicina il momento dell’aurora, gli uccelli vanno svegliandosi.
«Non solo non è poco ma qui ci sono due personaggi. La sorella e il fratello».
«Ci sono sempre due personaggi, in fondo».
