Cecilia Ghidotti è autrice de Il pieno di felicità (minimum fax 2019), un libro che racconta cosa succede quando hai trent’anni e vai a vivere in una delle città più brutte di Inghilterra. La colonna sonora del libro comprende, oltre ai National, una serie di artisti che si possono ascoltare qui.
La ospitiamo su L’indiependente per farci raccontare i concerti di Parigi e Londra dove i National hanno suonato in anteprima il nuovo album I Am Easy to Find.
A slow blooming flower
C’è un’intervista di una radio messicana ai National dell’inizio 2018 che ricordo più o meno a memoria nella quale il conduttore chiede alla band di ripercorrere i momenti salienti della loro carriera. We were a slow blooming flower dice Matt Berninger, frontman della band – quarantasei anni quasi quarantasette – per riassumere il loro itinerario verso il successo. E uno slow blooming flower lo sono stati davvero se si guarda agli esordi incerti dei primi anni duemila (l’album che porta il nome della band, il successivo Sad Songs for Dirty Lovers), alle prove via via più sicure di Alligator e Boxer e quindi, all’inizio degli anni dieci, alle consacrazioni di High Violet e Trouble Will Find Me. Matt si concentra su Sleep Well Beast, il disco che stanno promuovendo in quel momento. Dice che è una fase paradossale: il mondo va in pezzi e loro stanno attraversando uno dei periodi più felici della loro vita personale e professionale. Everyone has found their nest, we couldn’t be happier and the world is on fire dichiara, prima di lanciarsi in un parallelo tra la sua vita matrimoniale, il disco e l’America di Trump.
La domanda successiva, che il conduttore si guarda bene dal formulare, mentre io – che negli ultimi anni ho dedicato una quantità di tempo enorme a tutto ciò che hanno prodotto – avrei fatto è: dove si va da qui? Cosa potranno mai fare i National dopo un disco che è praticamente un concept album su un matrimonio in pezzi che si specchia continuamente nelle tensioni degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump e che, paradossalmente, proprio in questa riflessione sull’andare in pezzi trova la ragione per continuare a esistere, sia a livello delle relazioni private che in una dimensione politica più ampia?
La risposta arriva poco più di un anno dopo, un tempo incredibilmente breve per una band che ha fatto delle gestazioni lunghissime tra gli album un tratto distintivo della propria carriera (tre o quattro anni minimo). I Am Easy to Find in uscita il 17 maggio è un prodotto inatteso, anticipato dalla band in accenni nel corso di interviste cui nessun fan aveva creduto sul serio, troppo abituati ai tempi lunghi del loro procedere e consci del fatto che i cento progetti intrapresi dai membri della band sembravano rendere se non impossibile, quantomeno improbabile, la realizzazione di un disco a questa velocità. Negli ultimi anni hanno fatto di tutto: band parallele, festival collaborativi, compilation a scopo benefico, un musical e una serie tv che chissà dove si è persa. Ce ne sarebbe abbastanza da mettersi a dormire per un po’.
E invece i National vanno avanti e fanno un disco nuovo. Che non è solo un disco ma anche un film. Non è la prima volta che i National si aprono a forme diverse dalla canzone, Mistaken for Strangers (2013) per la regia di Tom Berninger, fratello di Matt, aveva offerto un primo esempio di come canzoni e immagini potessero andare insieme, in quel caso nelle forme di un documentario ironico e dissacrante sul rapporto irrisolto tra i due fratelli Berninger. Questa volta, invece, entrano nel territorio del cinema di finzione.
La genesi del progetto la raccontano così: Mike Mills (il regista, non quello dei REM) scrive a Matt offrendosi di realizzare un videoclip. In risposta riceve materiali a vari stadi di lavorazione: canzoni che non avevano trovato posto in Sleep Well Beast o pezzi che risalgono a un periodo ancora precedente. Con questi Mike Mills inizia a giocare. Restituisce un primo montaggio alla band che, stimolata dalla cosa, realizza nuovi pezzi. E così fino ad arrivare alle canzoni che compongono l’album. Che sono nuove non solo perché inedite ma perché per la prima volta ci saranno voci diverse da quelle di Matt a cantare. E saranno voci di donne.
Di fronte alla complessità della proposta ce n’è abbastanza per chiedersi se davvero ne avevamo bisogno. In particolare mi lascia perplessa l’enfasi che, nel lancio stampa, viene data alle presenze femminili. “Le voci delle donne, abbiamo le voci delle donne” quasi che nel mondo post-MeToo fosse indispensabile aggiungere quote rosa. Il che risulta ancora più fastidioso dal momento che stiamo parlando dei National, una band che più di tutte ha incarnato un certo modo di essere bianchi, maschi, liberal e middle class, giusto un po’ tormentati. Matt giustifica la scelta sostenendo che il punto non era tanto fare una specie di collezione di voci femminili fine a sé stessa ma avere “more of a fabric of people’s identities”. Andrebbe benissimo se si fermasse lì, poi però aggiunge che, idealmente, avrebbe voluto anche altre voci maschili ma il suo ego “wouldn’t let that happen” – come se le voci femminili non potessero in alcun modo andare a sfidare o a mettere in discussione il suo ego.
Every other house in the street is burning
Nonostante queste riserve non penso nemmeno un istante a rinunciare ai concerti che anticipano l’uscita del disco. Li hanno chiamati A Special Evening with the National. Evenings nel mio caso, perché io coi National faccio così: se posso vederli due volte li vedo due volte. Parigi e Londra. Cui si aggiunge un ulteriore secret show a Parigi che verrà trasmesso alla radio. E fanno tre concerti in quattro giorni. Ci vogliono un sacco di tempo, una discreta possibilità economica e un notevole livello di ossessione per star dietro a queste cose. Per giustificarmi ricorro a similitudini calcistiche, nessuno si azzarderebbe a mettere in discussione chi decide di seguire la propria squadra del cuore per l’intero campionato, giusto?
Se ne valga la pena in astratto non saprei, ma ora che sono qui fuori dal Café de La Danse di lunedì pomeriggio non sembra ci sia niente di più sensato che condividere l’attesa con un gruppetto di persone che ha fatto viaggi persino più lunghi di me, che mi sono limitata a salire su un Flixbus a Victoria Station e a scendere a Parigi, scoprendo nel mezzo che per attraversare il tunnel sotto la Manica non si passa in una galleria normale: gli autobus vengono caricati su una specie di treno-shuttle che fa avanti e indietro.
Le notizie da Notre-Dame iniziano ad arrivare nell’esatto momento in cui aprono le porte del locale. Fisso il telefono e non capisco. Non voglio arrendermi all’assurdità della coincidenza di essere a Parigi, a un concerto, mentre avviene quello che dal 13 novembre 2015 abbiamo iniziato a temere. Così, quando qualcuno mi dice che si tratta un incendio a Notre-Dame, io registro solo la parola incendio e mi tranquillizzo perché non è quello che temevo di più. Per l’ora successiva non tornerò nemmeno un istante alla cattedrale in fiamme, troppo occupata a decifrare quello che sta accadendo davanti ai miei occhi. La mattina successiva andrò a comprare il giornale quasi dovessi fare ammenda per aver vissuto quell’ora in totale asincronia con la realtà e in una disposizione d’animo che non si può definire se non come sbagliata. Sì perché mentre Notre-Dame bruciava e veniva giù la torre e si temeva per la tenuta di uno dei monumenti che non solo connotano una città ma anche la nostra esperienza di esseri umani nel pezzetto di mondo che ci è dato di attraversare (le gite scolastiche, l’interrail, la foto di mia mamma giovanissima in una vacanza studio vinta col settimanale Gioia e pochi anni più tardi con mio padre in viaggio di nozze), io avevo altro da fare.
Giant baritone is hard to beat
Conoscere per la prima volta delle canzoni nuove a un concerto è l’opposto dell’esperienza normale. Ai concerti solitamente uno rivive, io almeno rivivo, le canzoni che a volte per anni hanno segnato le nostre esistenze (ok la mia) e ne sono state non solo colonna sonora ma correlativo, specchio, sostegno e compagnia. I tre minuti dell’esecuzione live sono una specie di condensato in cui tutti quegli ascolti precipitano. Le canzoni nuove invece non significano ancora niente. A parte Rylan. Rylan è una canzone che i National suonano dal vivo dal 2011 e che gode di uno statuto particolare tra i fan proprio in virtù del fatto che non era mai stata incisa. Così, di questo primo ascolto, Rylan a parte, non capisco granché: troppo emozionata, troppo vicina alle casse, troppo distorto il suono per riuscire ad afferrare più di qualche parola sparsa: l’inglese delle canzoni continua ad essere la forma più refrattaria alla mia comprensione. Ci sarà tempo per capire. Nel frattempo l’attenzione è tutto su quello che vedo.
Il primo motivo di interesse è come i National portino sul palco la dimensione collaborativa del disco. Anziché un microfono, al centro della scena, ce ne sono quattro. Berninger occupa l’estrema sinistra del piccolo palco a fianco a lui a Gail Anne Dorsey (storica collaboratrice e bassista di David Bowie), Pauline de Lassus (musicista e moglie di Bryce Dessner) e Kate Stables (voce di This is the Kit). La disposizione urla che ce la stanno mettendo tutta per evitare l’effetto coriste. E fin dalle prime note del singolo You Had Your Soul With You mi pare ci riescano. Le voci delle donne non sono un’aggiunta alle canzoni, ma sono parte integrante del tessuto che le costituisce. Matt continua, sul palco, ad avere un peso specifico enorme che solo Gail Ann Dorsey riesce a contrastare con una presenza ieratica e solenne ma, nel complesso, il sistema di pesi e contrappesi tiene. E sul palco non sono mai stati così numerosi. Alla formazione a cinque ormai classica che vede Bryce e Aaron Dessner alle chitarre e al piano, i fratelli Scott e Bryan Devendorf a basso e batteria, si aggiungono questa sera James McAlister (collaboratore di lungo corso alle musiche e ai testi) alla seconda batteria e un quintetto d’archi che si distingue in modo particolare nel nuovo arrangiamento di Rylan. Mancano invece Ben Lanz e Kyle Resnick ai fiati che ormai da anni completano la formazione. Il set scorre veloce, Matt esplora con disinvoltura i suoi registri vocali: il tono baritonale che lo connota abitualmente ma anche le urla, una marca caratteristica soprattutto dei primi dischi. C’è un pezzo in cui si lancia in un recitato del tutto inedito e spiace davvero non ci sia nessuno cui dare di gomito e ridacchiare insieme: – ehi Matt sta facendo Mimì Clementi. Talvolta addirittura tace e lascia che siano Gail, Pauline e Kate a cantare. E, con loro, Aaron Dessner. Aaron che canta è una specie di rivoluzione, soprattutto per quanti ricordano un tweet in cui il chitarrista dichiarava che cantare gli era difficile perché “giant baritone is hard to beat”. “Giant baritone” è ovviamente Matt. E se il baritone è sempre lì, il giant è meno giant in un movimento di reinvenzione e di messa in discussione delle dinamiche interne che era già stato probabilmente anticipato dai tanti duetti del tour precedente – con Lisa Hannigan, Julien Baker e Phoebe Bridgers soprattutto – ma che non si era ancora rivelato in maniera così organica.
Finisce e siamo fuori. Cerco di darmi un contegno ma sono raggiante. Per una manciata di ore queste canzoni saranno di proprietà quasi esclusiva di un esiguo gruppo di persone di cui faccio parte. Andiamo a cena in un bar deserto, il proprietario continua a offrirci da bere, sembra non voler lasciarci andare via.
Feeling big, small, scared at ease
L’indomani, di giorno, si contano i danni a Notre Dame e a sera c’è il debutto della prima delle Special Evenings. Il programma prevede la proiezione del film I Am Easy to Find, Q&A con band e regista e infine concerto.
L’Olympia assomiglia a un cinema che avrebbe bisogno di una ristrutturazione o forse sono solo i seggiolini bassi a risvegliare memorie da sala parrocchiale. I Am Easy to Find film è un organismo complesso, decisamente più articolato rispetto al video di Light Years che lo anticipa. L’idea è semplice: la vita di una donna dalla nascita alla morte in 164 scene. La protagonista è interpretata da una Alicia Vikander che riesce ad essere credibile sia come bambina in preda ai capricci sul pavimento, che come giovane madre, che come anziana sul letto di morte. Ma non è la ricerca di mimesi la dominante di questo lavoro, il registro va invece nella direzione di un processo di scarnificazione dei dettagli di realtà: nella cornice di un bianco e nero luminoso i personaggi si muovono in ambienti innaturalmente vuoti, si tratti della casa o dell’officina meccanica in cui la protagonista lavora. Potrebbero essere gli anni Cinquanta come gli anni Settanta: più che il passato sembra un ricordo del passato.
Il ritratto della protagonista si compone non solo delle azioni che compie sullo schermo ma da una serie di didascalie in terza persona che offrono piccoli squarci su quanto le accade, su quello che sente, su come le persone e gli oggetti che incontra e di cui si serve vanno a definire la sua identità. “Feeling big, small, scared at ease” è una frase che torna più volte come un ritornello mano a mano che la temperatura emotiva della storia si alza. Che si tratti ancora una volta di un regista uomo che sceglie di raccontare una donna, è un aspetto potenzialmente problematico che si dimentica, che almeno io dimentico, rapidamente di fronte all’impossibilità di non rimanere avvinti in questo piccolo catalogo di azioni e reazioni in cui ciascuno finisce per trovare qualcosa in cui riconoscersi: si tratti del primo bacio, di un figlio o del dolore per la perdita di una persona cara. E poi c’è la musica. Le canzoni sono in parte quelle di ieri ma arrangiate e montate diversamente, emergono dettagli singoli, una parola, un verso che, nel contesto del film, assumono significato autonomo.
Il concerto a seguire rischia quasi di essere un’indigestione. Sul palco, questa volta davvero molto ampio, ci sono, in alcuni momenti, fino a diciassette musicisti. Il design delle luci è semplificato al massimo: due rettangoli di led a segnare soffitto e pavimento e proiezioni monocromatiche che disegnano i contorni dei musicisti. Le canzoni nuove iniziano ad assumere contorni familiari: You Had Your Soul With You con Gail Ann Dorsey che ci ricorda che “You have no idea how hard I died when you left”. Oblivions quasi ballabile, il cui testo torna a riflettere sui rapporti di coppia: “you won’t walk away don’t you / I still got my fear” si rincorrono le voci e, a fare da sfondo, l’onnipresente tema dell’acqua. Where is Her Head disegna una specie di Alice in Wonderland persa e disambientata, forse ricomposta dall’azione stessa del dare un nome alle parti:
“Where are her eyes?
Where are her feet?
Where is her head?”
Hey Rosie scritta dalla moglie di Matt e quindi dedicata da lui a lei. Sinceramente preferirei che la moglie fosse prima chiamata col suo nome e poi qualificata in base al rapporto con il frontman. Tuttavia mi sono fatta l’idea che, dopo tanti anni di scrittura a quattro mani che ora le viene esplicitamente riconosciuta, sia proprio Carin Besser a ricercare e forse anche a godersi divertita questo ruolo di divinità nascosta, di autrice che non vediamo mai sul palco, ma in fin dei conti responsabile di ciò che esce dalla bocca di suo marito, il quale ci sta regalando una bella performance anche se, a tratti, sembra non sapere bene dove mettersi, soprattutto quando una danzatrice (Sharon Eyal) gli volteggia intorno.
The National, L’Olympia – Foto di Caroline Vandekerckhove
Il gruppo macina spedito una scaletta di soli pezzi nuovi e nel bis, quando sarebbe lecito aspettarsi che propongano qualcosa dal loro catalogo, tornano con un altro inedito: Not in Kansas. Una specie di filastrocca che fa da contrappunto al film e mette insieme in forma di elenco relazioni, esperienze, immagini, visioni, ascolti, desideri di prendere a pugni i nazisti (un po’ come la Diane Lockhart di The Good Fight) che, secondo Matt, definiscono la sua identità. E un ritornello che fa tanto canto di chiesa (Il Kansas è uno stato bigotto no? Torna?).
Che roba ambiziosa e sfaccettata, che arrangiamenti complessi, che tessuto raffinato, che proposta di spessore, gongolo deliziata mentre le note familiari di Bloodbuzz Ohio tingono di rosso l’Olympia.
Che balle, sintetizza uno che conosco all’uscita.
There’s a million little battles that I’m never gonna win
Poi è giovedì, prendo un treno e sono a Londra. Al terzo show della stessa band in settantadue ore il rischio è, per una persona normale, morire di noia oppure, nel mio caso, finire col perdere del tutto il contatto con la realtà. Però è la vigilia del weekend di Pasqua, su Waterloo Bridge c’è il presidio di Extinction Rebellion che ha ancora tutta l’energia e lo slancio delle mobilitazioni appena iniziate quando gli scazzi appaiono superabili. E poi Londra ha deciso che è iniziata l’estate – ci saranno venticinque gradi – e si può quasi avvertire il movimento con cui un’intera città che si sveste e si prepara a fare incetta di sole, birre e calici di terribile pinot grigio nei parchi. Così mi abbandono al clima prefestivo e passo da quelli di Extinction Rebellion sul ponte allo street market dietro la Royal Festival Hall ripetendomi che a sanare la contraddizione ci penso da domani. E poi allo street market hanno i bicchieri riutilizzabili.
La scaletta del concerto è la stessa di Parigi ma c’è un’energia diversa. “There’s a million little battles that I’m never gonna win” cantano in I Am Easy to Find, certamente, ci saranno pure delle battaglie che sono perse, ma questa sera è un trionfo. Sarà che i biglietti sono andati via in due minuti, che la Royal Festival Hall col suo cemento armato brutalista ha l’aria di una fortezza da espugnare, che è l’ultima sera del mini tour europeo e c’è voglia di smollarsi un po’ ma, se nelle due serate parigine i National avevano presentato le canzoni nuove, questa sera se le mangiano.
È difficile individuare con chiarezza che cosa ci sia di diverso.
Mano a mano che la serata procede mi faccio l’idea che la chiave sia Eve. Eve, che questa sera accompagna Pauline e Kate alle voci, ha i capelli neri, la riga in mezzo e un ciuffo di capelli decolorati. Sembra davvero molto giovane. Chemistry è una parola che usano spesso per descrivere quando due attori funzionano bene insieme ed è chiaro che quello che passa tra Matt e Eve e si estende a tutto il palco e coinvolge anche alla platea, risponde proprio a quel nome lì. E quando durante il bis Eve torna per I Need My Girl, e siamo ormai tutti in piedi e si prende la seconda strofa per intero, è un po’ come se qualcuno dal pubblico, ma con una voce meravigliosa, fosse salito a duettare con la sua band preferita.
Nei giorni successivi mentre l’estate di Londra non accenna a finire, il duetto mi resta in mente come uno dei momenti che hanno maggiormente contribuito a definire il senso di questi giorni.
Le band e le relazioni all’interno delle band sono dei sistemi complessi che attraversano periodi di tensione e di stanca e i National non hanno mai fatto mistero delle loro difficoltà nel rimanere in piedi. Nella performance con Eve (che di cognome fa Owen ed è la figlia dell’attore) mi pare di aver potuto assistere alla messa in scena concreta di uno dei momenti di rinnovamento legati alla dimensione collaborativa su cui i National tanto insistono in questo capitolo della loro storia e che, in ultima istanza, costituiscono la ragione per cui continuano ad avere un futuro.
Anche le relazioni tra band e i loro ascoltatori sono sistemi complessi che attraversano periodi di tensione e di stanca, i National con questo disco – sia nella maniera in cui è stato realizzato che in quella in cui è stato portato sul palco – ripetono incessantemente che quello che conta alla fine sono i fili che ci tengono uniti gli uni agli altri, il che per un gruppo che a lungo tempo ha incarnato un certo modo di essere tristoni, depressi e autoriferiti rappresenta un’evoluzione quantomeno sorprendente. Ammenoché questo aprirsi il più possibile non sia invece l’approdo ultimo del progetto National, prima di dichiarare conclusa l’avventura e dedicarsi ad altri progetti, come sembra suggerire Bryce Dessner in un’intervista dal taglio insolitamente cupo.
Infine le temperature tornano alle medie di stagione io ne sono persino un po’ felice, come quando da bambini, dopo vacanze particolarmente belle, si era contenti di tornare a casa per portare un po’ di quell’entusiasmo nella vita quotidiana.
Riguardo le foto e i video: fanno, prevedibilmente, schifo. Ce n’è solo uno che non guardo: è quello del momento in cui Matt è sceso in platea a cantare una strofa di Rylan al mio fianco. Lo conservo per quando le impressioni di questi giorni saranno più vaghe e sfumate. Il fatto che nonostante li abbia consumati sotto ogni prospettiva possibile, i National ancora non mi siano venuti a noia, è per me motivo di una specie di perpetua sorpresa che non voglio nemmeno provare a indagare.