Raggiungiamo telefonicamente Emidio Clementi in una mattinata di febbraio, mentre è a Torino in attesa di un treno. Ringraziandolo per la gentilezza estrema, proponiamo questa breve intervista.
Volevamo partire dall’ultimo disco dei Massimo Volume, Aspettando i barbari. Sembra un lavoro meno corale rispetto al passato, in cui tu sei più defilato. Come mai questa scelta, se c’è?
Beh sì, dai, dopo tanti dischi e anche nei libri in cui ho utilizzato molto l’io narrante, mi sembrava giusto anche lasciare più spazio a quello che mi stava intorno. Anche prima c’era sempre un’attenzione sul reale, su quello che mi accadeva, però è vero che mi sono un po’ defilato. Non così grande, non così eclatante, però il cambiamento più significativo è proprio da un punto di vista letterario del disco.
E invece che rapporto hai oggi con quella che è la galleria di personaggi che affollano i testi delle tue canzoni, da Leo a Silvia Camagni, se c’è ancora un rapporto?
Sì, ho ancora un rapporto. Non con tutti, perché Silvia adesso vive fuori dall’Italia, ci scriviamo, mentre con Leo non ho un rapporto quotidiano ma comunque è stabile e continuo. Insomma continuo a coltivare i miei personaggi, perché poi continuo a tirar fuori anche storie sempre nuove. Quindi mi sono utili.
A questo proposito condividi una frase di Fellini ”sono autobiografico anche quando parlo di una sogliola”?
Ma sì, perché un passaggio del vissuto per rendere verosimile quello che stai scrivendo serve sempre, quindi anche quando poi uno si immedesima in un altro personaggio, ci scrive qualcosa che magari non gli è così vicino, ma c’è sempre un passaggio per renderlo vivo, attraverso quello che ha vissuto. E quindi è vero alla fine che tutto diventa in parte autobiografico.
Se penso anche per esempio al libro di racconti adesso, La ragione delle mani, nessun racconto è totalmente autobiografico, però tutti i personaggi hanno fatto un passaggio nel mio vissuto.
Ci piacerebbe sapere se ti senti parte di quel movimento di poeti che hanno trovato uno spazio d’espressione più vivo nella musica, e come ti trovi a incastrare le parole dentro la musica.
Sì, la musica mi ha dato un’immagine pubblica, perché ho cominciato scrivendo. Però erano cose che io tenevo nel cassetto e ho tirato fuori nel momento in cui sono nati i Massimo Volume. E rispetto alla pagina bianca di un racconto o di un romanzo, nella musica si parte avvantaggiati proprio perché c’è un’atmosfera che in qualche modo ti aiuta, e ti indica anche poi lo sviluppo del testo. Non parti da zero ma parti già con un’atmosfera ed è tanto, perché poi quell’atmosfera riesce a darti anche un punto di vista. Io quando sento la musica che facciamo la porto a casa, e so già se è un testo che scriverò in prima persona o se riguarderà degli altri. E quindi è tanto. E in più dura poco, scrivere qualcosa che dura tre minuti lo trovo meno impegnativo che un romanzo di 200 pagine.
Però poi, senza ridurlo ad una cosa così meschina, c’è anche un discorso economico: bisogna tenere in piedi più cose per poter campare, e quindi non rinuncerei all’una o all’altra. Ma poi sono delle grosse passioni, non lo farei comunque.
Vedi dei cambiamenti all’interno della scena bolognese e più generalmente quella indipendente italiana dall’esordio dei Massimo Volume ad oggi?
E’ difficile percepire i cambiamenti così, mentre accadono. Per quanto riguarda la scena bolognese un po’ faccio fatica anche a vederla, ci sono dei gruppi e delle realtà però non c’è una vera scena, mi sembra che anche la frequentazione sia minima. Per quanto riguarda la scena italiana mi è già capitato di dirlo, perché tutti lo vedono come un periodo piuttosto negativo questo, soprattutto rispetto agli anni Novanta, però secondo me in tutti questi anni si è creata anche una tradizione di musica alternativa, che ha formato più di una generazione, che è cresciuta dai CCCP, ai CSI, fino agli Afterhours, che fanno parte un po’ di un immaginario. E secondo me questo è tanto, perché prima non c’era. Quando noi abbiamo cominciato a suonare, all’inizio degli anni Novanta, la musica italiana era vista proprio come una musica di serie B rispetto a quella che arrivava dall’America o dall’Inghilterra. Mi sembra che non sia più tanto così.
Vedi un pubblico diverso o più numeroso rispetto agli anni Novanta?
No, quello no. Più numeroso no. Mi sembra che più o meno sia quello.
Come vivi il tuo rapporto con la scrittura oggi che la stai anche insegnando?
E’ un rapporto difficile, perché poi è un sacrificio per me scrivere, non ho mai avuto una vera facilità di scrittura, quindi sono sempre pagine sudate, però a volte anche estremamente gratificanti.
Quando alla fine di una giornata ho scritto due pagine che mi convincono è stata una bella giornata. E poi è bello anche, ma quello succede anche nella musica perché c’è un lavoro d’equipe, quando riesci un po’ a stupirti di te stesso, di quello che è uscito fuori, di una buona idea che poi improvvisamente, e non si sa come, diventa una bellissima idea. Succede nella musica perché ci sono più menti che lavorano ad un’idea e quindi è più facile che ci si riesca a sorprendere.
E il tuo rapporto con i nuovi aggeggi digitali, tipo ipod o ebook?
Li vedo girare per casa, un po’ li guardo con diffidenza, un po’ mi incuriosiscono. Ma così, non mi sono mai comprato un visore per leggere i libri, perché son molto legato al libro, ho acquistato qualche disco su iTunes. Insomma così, dai. Come uno che c’ha 47 anni.
A proposito di Emanuel Carnevali, il tuo legame con lui è più quello di un padre ispiratore di cui diffondere versi e storia come stai facendo in un reading adesso, oppure di fratello ideale?
Più il primo, perché c’è una distanza di tempo e non c’è mai stata occasione di incontrarsi, non c’è stata una confidenza, un incontro o un’amicizia. Però visto che all’epoca ancora stavo cercando la mia strada, stavo cercando la parola, lui è uno di quelli che mi ha indicato la strada.
Io lo vedo un po’ più come un padre, un padre scellerato, e spirituale. Poi non so, magari l’avessi conosciuto avrei cambiato pure strada se lo vedevo da lontano.
In un’intervista che hai rilasciato a Baronciani suggerivi di cominciare a dividere l’Italia in Est e Ovest piuttosto che Nord e Sud. Da uomo dell’Est, ci spieghi il perché?
Non vorrei essere scortese con voi che vivete a Napoli, ma sento una vicinanza tra costa e costa. Perché anche morfologicamente, come paesaggio c’è una diversità. Di solito nel Tirreno c’è il mare, e poi subito dopo la catena delle montagne, cosa che per il mio spirito è un po’ inquietante. Mentre da noi c’è un lento degradare, che invece voi tirrenici trovate noioso, che dalla spiaggia diventa lentamente collina: da un mare molto basso verso la spiaggia che poi diventa collina, e poi passano dei chilometri prima dell’arrivo delle montagne. Ed è questa dolcezza a piacermi. E io la ritrovo da Bari salendo su fino a Venezia. E’ una divisione che poi non si fa mai, perché si parla sempre di Nord e Sud, invece sarebbe interessante dividere l’Italia per coste.
Che cosa ascolta oggi Emidio Clementi? E cosa legge?
Proprio oggi che sono a Torino, mi sono caricato un po’ di dischi e sto ascoltando L.A. Woman dei Doors. Trovo che siano un gruppo che è stato un po’ distrutto dalla loro immagine pubblica, da questi che li mandano alla fine delle Feste dell’Unità, li hanno massacrati, però io lo trovo un gruppo grandioso, originalissimo. Mi piacciono da morire i Doors. Restando in Italia mi è piaciuto molto il disco di Edda, Odio i vivi, mi è piaciuto l’ultimo disco di Gil Scott-Heron, ce ne stanno molti, non seguo tantissimo le novità, però poi ci arrivo. Mi è piaciuto il disco di Alessandro Grazian anche, molto.
Poi adesso sto rileggendo questo libro di Claudio Piersanti che è L’amore degli adulti, un libro di racconti molto bello che è stato tra le mie influenze, perché mi ricordo che quando cominciai a scrivere Gara di resistenza avrei voluto proprio copiare il suo stile, e in parte l’ho fatto. Un libro molto bello, proprio sull’amore degli adulti.
intervista scritta a 4 mani da Giovanna Taverni e Salvatore Sannino