20.000 Days on Earth o delle sette vite di Nick Cave

Ci vuole un po’ di tempo per comprendere realmente quello che 20.000 Days on Earth vuole comunicarti, meno, comunque, di quanto ce n’è voluto perché arrivasse al cinema in Italia, piazzato in mezzo alla settimana come tappabuchi fra l’onda ascendente di qualche kolossal di questi tempi e l’uscita dei cinepanettoni. Ma la crisi del cinema italiano e del suo pubblico è un’altra questione che, in un discorso su Nick Cave, scende in secondo piano, ma neppure troppo. Ci è voluto molto tempo per parlarne perché non è quello che potrebbe sembrare a prima vista. Non è un film soltanto per i fan, non è un biopic tout court, ma un racconto personale e intimista di come fare arte e, soprattutto, come conviverci, nel modo disturbato e complesso che distingue la musica e la figura di Nick Cave dagli ultimi esuli di quell’epoca d’oro che furono gli 80. Oltre al lirismo e a quella parte di fredda vanità che fa parte del personaggio, i primi 55 anni del musicista australiano raccontano i problemi e le fragilità alla base di ogni percorso creativo che abbia raggiunto una notorietà particolare, quella di una guida che fa commuovere il pubblico che lo segue da tanti anni quanto di quelli che cercano di immergersi in quell’ambiente senza affogare.

È un percorso fatto di paure e soddisfazioni, delle persone che l’hanno accompagnato e l’hanno sostenuto, di chi c’era e di chi si è perso nel lungo procedere dallo zero ai ventimila. I stopped in an avalanche, It covered up my soul. Questo permette di spostare l’attenzione dal leader magnetico dei The Bad Seeds a tutto ciò che c’è dietro, e dentro, all’uomo Nick Cave. Sciolte quelle parole che riempono i suoi dischi l’artista si ritrova nudo, a contatto con la sua quotidianità a Brighton, nella composizione, nel rapporto con la famiglia e con i fantasmi che continuano a circondarlo. In questa trama dickensiana c’è spazio per il ritorno di Blixa Bargeld a rappresentare una strada che non smette di percorrere sempre la stessa direzione. Hide your memories, hide them all. Stuff them in a cardboard box. Il ricordo assume, qui, una parte fondamentale e diventa il filo conduttore privilegiato di tutta la storia, rappresentato anche dall’archivio in cui sono raccolte tutte le sue esperienze, come una grande banca dati la cui chiave di accesso è la conversazione con lo psicologo Darian Leader e dagli altri che gli pongono le domande. Non poter più ricordare è  la paura più grande, peggiore del finire nel dimenticatoio (e questa eventualità non è contemplata, in realtà), perché la creazione stessa non sarebbe più possibile. Ma tutto questo viene messo costantemente in discussione, dal passare del tempo, anche quello meteorologico da cui Nick Cave è particolarmente affascinato, e dalle imprevedibili evoluzioni che ne derivano. Si confondono, come del resto in tutta la sua discografia, i concetti di presente e di passato della narrazione in uno stream of consciousness infinito e irripetibile (non è un caso che la regia segua un movimento di disorientamento temporale continuo). Emerge la più drammatica delle sentenze, fortemente religiosa, quella dipendenza fra artista e prodotto artistico in cui scompaiono i rispettivi confini individuali, su chi crea e su cosa viene creato, su cosa sorge dall’esperienza e cosa da piccole epifanie casuali, finché non resterà che cenere. Nick Cave, in qualche modo, ne è consapevole, forse troppo, ed è ciò che dà al pubblico, se stesso e le sue parole, in un tutt’uno indistinguibile. Il segreto, in fin dei conti, del suo successo e di tutte le vite che è riuscito a vivere e descrivere nelle sue canzoni.

Nick Cave riesce a raccontarci così, mediandola, una storia profonda su di sé, quasi guardandosi dall’esterno e ripercorrendo insieme a chi lo osserva la sua storia e ciò che ne è stato. Senza, per questo, scivolare nella redenzione o nel buonismo gratuito. È, ovviamente, solo una parte di quello che c’è veramente dietro, e di quello che ci ha voluto raccontare, ma che lo rende in qualche modo, se non più vicino, più comprensibile a chi lo ascolta. Perché ogni protagonista, alla fine, ha una parte della sua storia che non è stata ancora raccontata abbastanza.

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