3 libri per comprendere il nostro ambiente

Non tutti hanno avuto la possibilità di trascorrere i giorni del lockdown in case con balconi o in giardini privati dove respirare aria fresca. Chi ha vissuto all’interno di un piccolo appartamento in una grande città l’attesa del ritorno alle abitudini che avevamo prima della diffusione del COVID-19, ha capito l’importanza dell’ambiente che ci circonda. Secondo Eurostat, l’Italia è tra i grandi Paesi europei che vive una condizione abitativa più disagiata con ben il 30,9% dei nuclei in sovraffollamento. Oggi non dobbiamo stupirci di sentire il distanziamento sociale come un’esigenza fisiologica più che vederla come una norma imposta dall’alto. Eppure trovare uno spazio tutto per noi, lontano dalle persone e vicino alla natura implica rispettare gli altri esseri viventi che popolano un ecosistema. Nel corso dei secoli, però, gli esseri umani hanno scordato di non essere gli unici abitanti del pianeta, causando danni a ogni specie (compresa la nostra) e habitat. Se neanche una pandemia che ci ha costretto a casa per due mesi riesce a sensibilizzarci e a determinare un reale cambiamento nella nostra mentalità, allora cosa può farlo? Leggere, analizzare e interrogarsi è indispensabile e giugno, con le giornate mondiali dedicate all’ambiente, alla bicicletta, agli oceani e al vento, è il mese perfetto per iniziare o per continuare il proprio allenamento mentale verso una nuova consapevolezza. In questo periodo è bene ricordare che non tutte le risorse di cui disponiamo sono infinite e grazie ad alcuni autori sono riuscita a comprendere che nulla deve essere mai dato per scontato, soprattutto sull’ambiente.

Capitalocene – Silvio Valpreda

Add editore

Stavo iniziando a capire che gli interessi in gioco non fossero soltanto quelli degli esseri umani e quelli della natura. Ma c’era qualcosa d’altro che influenzava le decisioni e muoveva le scelte. Sia dell’uomo, sia della natura.

Non c’è modo migliore per spiegare un problema se non cercando di dargli forma e chiarezza. L’artista concettuale torinese Silvio Valpreda è partito proprio da questo presupposto e ha deciso di raccontare il rapporto tra uomo e natura attraverso diversi episodi illustrati provenienti da tutto il mondo. Capitalocene è un libro a metà strada tra un taccuino di viaggio e un’infografica ricca di mappe, fotografie e disegni, nato per sollevare dubbi e instillare curiosità nei lettori. Chiunque, infatti, può trovare tra queste pagine nuovi spunti per capire quale impatto abbiano avuto le scelte dell’uomo sull’ambiente.

Dalle pianure sconfinate del Serengeti in Tanzania, passando per la Scozia, la Norvegia, Miami, l’isola di Lavezzi e arrivando anche in Oriente, nel quartiere di Tsukishima a Tokyo, la questione è sempre la stessa: chi ha determinato il cambiamento? Nella maggior parte dei casi l’uomo è semplicemente uno strumento del vero motore: il denaro. Cosa fare per rallentare un fenomeno che mette a rischio il nostro ambiente? Non ci sono risposte in questo libro pubblicato recentemente da add editore, poiché lo scopo principale non è quello di portare una verità inconfutabile. Valpreda ha voluto raccogliere alcuni appunti nati esclusivamente dall’osservazione di determinati scenari proprio per fornire nuovi spunti di riflessione.

La vera peculiarità di Capitalocene, però, è l’uso del linguaggio visivo. Qual è il vantaggio? Rendere immediato ogni concetto, anche quello più complesso. Se le parole hanno il potere di fissare un’idea rendendola più specifica, le immagini aprono la mente, rievocano ricordi e si trasformano in sensazioni. Imparare a interpretare le proprie impressioni è un esercizio fondamentale da fare per riuscire a rimanere ancorati all’interno della nostra società e Valpreda, grazie al suo carnet, è capace di indirizzare sia i giovani che gli adulti verso la strada giusta per comprendere il mondo che ci circonda. 


La via del bosco – Long Litt Woon 

Iperborea

Man mano che l’universo dei funghi si schiudeva davanti a me, mi rendevo conto che la via del ritorno alla vita era più semplice di quanto credessi: si trattava solo di radunare gioie, gioie sfavillanti e crepitanti.

La perdita di un affetto non provoca soltanto dolore, ma è anche motivo di cambiamento. Lo sa l’antropologa malese Long Litt Woon, autrice de La via del bosco pubblicato lo scorso autunno in Italia dalla casa editrice Iperborea. Come si affronta un lutto? Dal momento che si tratta di un’esperienza estremamente personale non è possibile trovare un manuale da seguire. Ognuno di noi, però, è in grado di capire che certe strade sono più facili da percorrere rispetto ad altre. Non importa quanto queste vie siano tortuose e considerate dagli altri poco lineari, superare la perdita di una persona cara è uno degli scogli più grandi che possiamo incontrare nella vita e nessuno dovrebbe mai permettersi di giudicare come o in quanto tempo avviene la “guarigione”.

Per Long Litt Woon la scomparsa del marito Eiolf apre un baratro di incertezze, ma è anche l’occasione per entrare in contatto con un ambiente diverso rispetto a quello in cui è nata e cresciuta. Trapiantata a Oslo per amore, capisce fin da subito che il legame dei norvegesi con i boschi non ha nulla a che vedere con quello di qualunque altro popolo al mondo, ma la sua routine non le consente di approfondire il motivo. L’assenza del marito la porta, invece, a scoprire quasi per caso la galassia ancora inesplorata dei funghi. Ed è proprio grazie a un corso di micologia per principianti che l’antropologa inizia a camminare lungo due percorsi paralleli: uno esteriore, nel regno dei funghi, e uno interiore, in quello del lutto.

Passo dopo passo i suoi sensi si affinano e ogni visita nella foresta è un’esperienza tattile diversa che le provoca impeti di gioia inimmaginabili. La via del bosco è un libro per chi cerca sollievo nelle piccole cose, non ha smania di grandezza, ma si accontenta di un sorriso o di un gesto inaspettato anche da parte di coloro che non dispongono del nostro linguaggio.


Nella tana – Gabrielle Filteau-Chiba

Lindau

La mia capanna. Quattro assi in mezzo al bosco. Un piccolo prisma rettangolare. Un vaso di Pandora. Non ho mai visto le cose con così tanta chiarezza. Dato un giudizio così netto sulla mia vita precedente.

Vi sarà capitato almeno una volta durante i mesi passati di pensare a quanto sarebbe stato liberatorio evadere: scegliere un luogo remoto sulla carta geografica e cercare a tutti i costi di teletrasportarsi subito lì. Perché barattare l’isolamento in cui siamo finiti per un altro tipo di isolamento? Forse per cercare risposte oppure per sentirsi meno soggiogati alle decisioni della collettività che, nella maggior parte dei casi, non riflettono il pensiero dei singoli. Pubblicato dalla casa editrice torinese Lindau, Nella tana non è un romanzo nato durante la pandemia, ma in qualche modo racconta una società malata in cui le persone, nonostante siano vicine fisicamente, non sanno più cosa voglia dire essere in sintonia con gli altri esseri viventi e con la natura.

Il distanziamento sociale di Anouk, la protagonista del libro scritto dalla promettente scrittrice canadese Gabrielle Filteau-Chiba, è totalmente volontario. Stanca delle pressioni di Montréal, si allontana dalla metropoli e si rifugia in una capanna nei boschi del Québec, dove oltre alla rigidità dell’inverno si trova a combattere con le sue paure primordiali. Nelle quasi cento pagine che formano il libro (che si legge tutto d’un fiato in un pomeriggio) la vita di città risulta insipida di fronte sia alle bellezze che alle insidie della natura. L’esistenza di questa ragazza, non solo socialmente accettata, ma anche affermata nel contesto urbano, riparte, però, grazie a un percorso costruito sulla solitudine.

Il suo nuovo inizio è scandito da albe e tramonti, da legna da ardere, da acqua da riscaldare e dagli incontri con le altre creature che popolano il bosco. Riscopre così il piacere della frugalità, smette di sentirsi un’intrusa nel proprio tempo fatto di scadenze da rispettare e di meeting a cui incontrarsi. Cosa serve macinare chilometri e sprecare energie, quando non siamo totalmente appagati o addirittura infelici? Una domanda che emerge più volte durante il corso della lettura. Eppure la strada da fare è ancora tanta e anche il finale rimane aperto. Chissà che Gabrielle Filteau-Chiba non racconti anche la sua esperienza primaverile a Saint-Bruno-de-Kamouraska. 

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