Abili simboli per diventare artisti negli anni zero: il cappello di Charlot

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Abili simboli per diventare (o farsi considerare) artisti negli anni zero.

 Quando uscì Luci della Città i veri Hipster non c’erano ancora (solo nel 1956 Ginsgberg scriverà: «hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto») e, a dirla tutta, il sonoro era appena arrivato. Erano bei tempi quelli, quelli del lontano ’29, quando Charlie Chaplin e Buster Keaton si davano battaglia per la palma di migliore attore comico e c’era ancora la generazione perduta a Parigi. E meno male che Woody Allen ce ne ha parlato in Midnight in Paris, sennò chi l’avrebbe conosciuto Ernest Hemingway e chissà quando avremmo scoperto Pablo Picasso. A me manca davvero quel periodo, e avrei voluto nascerci, anche se dopo c’è la seconda guerra mondiale, perché il clima era più romantico ed erano tutti artisti.

 Meno male che, però, c’è qualcuno che me li ricorda quegli anni e che mi ricorda che si può essere artisti anche oggi. Perché poi, Charlie Chaplin mi fa ridere, e il suo cappello è molto artistico, quasi un simbolo che merita di essere idolatrato, quasi un simbolo che ti distanzia dai comuni mortali. E allora sono contento se ,quando capito a lezione al Dams, non vedo il mio professore perché qualcuno indossa quella buffa bombetta, anche se c’è un tetto sopra di noi e non piove da due settimane, perché è di sicuro un artista e, per questo, va rispettato. E la bombetta, in una stanza del Dams, fanno di certo un artista, ne sono convinto, sennò perché lo indosserebbero?

Non sono sicuro però che il motivo sia perché la indossava Charlot o Alex Delarge nell’Arancia Meccanica di Kubrick, a dirla tutta. Ma, probabilmente, sono soltanto uno studente fazioso. Mentre passavo per le vie del centro però li ho beccati da H&M quei cappelli, a 9 euro e 95. Vabbè, dev’essere un caso, e poi si sa, gli artisti di soldi non ne hanno, quindi è normale che spendano poco e vadano in un centro commerciale che ti vende soltanto del conformismo, sono umani anche loro.. A dirla tutta, non sono poi così convinto di quello che sto dicendo. Sarà perché adesso ci sono quelli che hanno l’acqua in casa tutti i giorni e hanno il risvolto sui jeans pensando di seguire una moda, ma forse è l’idraulico che non arriva, non posso che pensare però a quanta acqua stia andando sprecata, anche perché, sono sensibile all’eco-sostenibilità. Ma non posso biasimarli, dopotutto qui, si sta al mondo solo con il vestito giusto ed è quello che dice chi sei, quindi se vuoi fare l’artista, fallo, ma con stile.

 Fatto sta che non ci capisco più nulla, ma credo che Hemingway, anche se si guardava Charlot nelle pellicole appena uscite, un cappello così non se l’è mai messo, ma perché ci sarebbe stato male, meglio la coppola per un duro come lui. Forse però, e c’è sempre un però in questi discorsi, qualcosa di buono c’è. Infatti, ora che ci penso, gli artisti hanno sempre tanto da dire e, ultimamente, non dicono mai nulla. O dicono tantissime cazzate, che poi è come non dire nulla. Fare commenti scomodi non se ne parla, denunciare qualcosa tanto meno. E allora forse c’è una soluzione a questo intricato discorso, scritto male e senza un filo logico, ed è la sindrome del cappello di Charlot. Sì perché se qualcuno fra di voi ha visto anche un solo spezzone di un suo film capisce subito di che cosa si tratta. Non ci sono parole, ma la poesia è incredibile. Ci sono gesti, risate, sottotitoli ma nessun suono.

 Forse Charlot ce l’ha insegnato bene, che per fare buona poesia non è necessario urlare. Peccato che gli altri non abbiano capito, caro Charlot, che per essere artisti non basta mettersi il tuo cappello.

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