Anton Corbijn: dai Joy Division ai Depeche Mode

La carriera di Anton Corbijn, fotografo, videomaker e regista olandese ha inizio nel 1972 quando si reca ad un concerto dei Solution, immortalando la pop band con una macchina fotografica presa in prestito dal padre. Il binomio musica-immagini sarà da quel momento la cifra distintiva che caratterizzerà la sua brillante parabola artistica. La passione per la musica lo spinge, sul finire degli anni Settanta, a trasferirsi a Londra dove inizia a frequentare la scena post-punk che lo ispira a tal punto da diventarne il maggiore interprete visivo.

“I moved from Holland to England in ’79 because of Joy Division”, racconterà Corbijn, ed è proprio ai Joy Division che il fotografo scatterà la prima foto famosa entrata nella storia dell’immaginario visivo musicale del tempo, quella con la band di spalle in cammino sotto ad una galleria ed il solo Ian Curtis fermo a guardare indietro. Immagine bellissima ed incredibilmente premonitrice se si pensa alla storia futura dei New Order e al destino spezzato di Ian.

I Joy Division fotografati da Anton Corbijn

Negli stessi anni collabora con il New Musical Express, il maggiore settimanale di musica inglese e molti dei suoi lavori vengono pubblicati su riviste come Vogue, Rolling Stone, Us, Details, Elle, Max ed Entertainment Weekly. Le mostre delle opere di Anton Corbijn hanno riscosso un enorme successo in tutta Europa e possono essere ammirate in musei, gallerie e in 14 libri finora pubblicati. Inoltre, il suo lavoro figura su circa 100 copertine di dischi o CD per artisti quali U2, R.E.M., The Bee Gees, Travis, Morrissey, The Rolling Stones, John Lee Hooker, Bryan Ferry, Herbert Grönemeyer, The Killers, Bruce Springsteen, James Last, JJ Cale, Nick Cave, Marianne Faithfull, Tom Waits.

Ma l’incontro più importante Corbijn lo fece prima con gli U2, con i quali instaurò un rapporto così stretto che Michael Stipe dei REM definì “un matrimonio”, e poi con i Depeche Mode. Due band importantissime che le visioni di Corbijn contribuirono a lanciare nell’olimpo musicale.

Corbijn e gli U2

Con la band irlandese Corbijn instaura da subito un prolifico rapporto professionale che sfocia poi in una solidissima amicizia. Segue la band e ne cura l’immagine, influenzando la loro immagine artistica e lasciandosi influenzare a sua volta. Dedica al gruppo numerosi lavori, tra cui il libro U2: una straordinaria discesa nel tempo e nel cuore di una delle rock band più celebri del pianeta. Memorabile la copertina di The Unforgettable Fire, con la sua idea delle rovine del Moydun Castle a rappresentare un luogo dell’anima dove sofferenza, vita, rivolta, disfatta e libertà si incrociano continuamente nell’eterno gioco della storia.

Indimenticabile anche quella di The Joshua Tree, con i quattro immortalati nel deserto a Zabriskie Point con una panoramica che racchiude l’idea portante della foto: la fusione dell’uomo e dell’ambiente, quella dell’Irlanda e dell’America insieme.

Corbijn racchiude la gioventù degli U2 in un bianco e nero antico, poi il colore entra sempre di più a far parte della narrazione visiva dell’artista olandese che racconta la band di Zooropa e Achtung Baby attraverso onirismi dipinti di blu e verde acido.

Il sodalizio con i Depeche Mode

Il primo scatto con i Depeche Mode risale al 1980. Si trattava di realizzare una copertina per il NME e Corbijn lo ricorda così:

It was a colour shot and I had Dave at the front and the others behind him; I focused on them and not on Dave. They were in very sharp focus, he was wearing a bright-pink shirt and it was very blurred. I don’t think Dave was expecting that.

La copertina di NME con i Depeche Mode scattati da Anton Corbijn – 1981

Passarono quattro anni prima di poter collaborare nuovamente insieme per il singolo “A Question of Time”, di cui Corbijn girò il video, e poi altri nove mesi di reciproca assenza, fino al tragico episodio di overdose di cui fu vittima Dave Gahan, dopo il quale i due si sono ritrovati e mai più lasciati, dando inizio ad un sodalizio artistico che non è mai più finito.

Anton Corbijn è stato per i Depeche Mode una guida, un amico, un collaboratore, ne ha interpretato l’anima artistica, intervenendo spesso direttamente con le sue visioni, influenzandone l’immaginario, attraverso una simbiosi così forte che farà dire all’artista olandese: “I felt like I ended up becoming a thinking member of the band.”

Dall’86 a oggi Corbijn ha girato infatti la maggior parte dei video del gruppo, ha realizzato tutte le copertine degli album e dei singoli dal 90 ad oggi e ha curato la regia e la scenografia dei loro concerti.

Depeche Mode

Corbijn racconta la musica attraverso le immagini e lo fa non soltanto per mezzo della fotografia, ma anche dei video. Siamo a metà degli anni Ottanta, in tal periodo inizia a girare come regista i suoi primi videoclip per gli artisti più disparati (a oggi più di 60): New Order, Depeche Mode, Nirvana, Red Hot Chili Peppers, U2, Metallica, Nick Cave e tantissimi altri.

Nel 1993 vince l’MTV Music Award per Heart Shaped Box dei Nirvana (Miglior Video dell’anno), in quello stesso anno realizza un cortometraggio per la BBC, Some YoYo Stuff, un documento unico su Don Van Vliet aka Captain Beefheart.

Nel 1994 riceve il Dutch Photography Award e nel 1995 guadagna una nomination ai Grammy per Devotional dei Depeche Mode (Miglior Video Musicale). Nel 2007 vede la luce il suo primo lungometraggio, Control, un racconto intenso e fedele sulla vita di Ian Curtis, che ottiene un buon riscontro al Festival di Cannes.

Control

L’Inghilterra a metà degli anni ’70 era piena di adolescenti che nella solitudine umida delle proprie camerette incidevano sogni nei solchi dei vinili dei loro miti (Buzzcocks, David Bowie, Sex Pistols). Indossavano giubbotti di pelle, si truccavano davanti allo specchio, chiudevano gli occhi e sognavano di essere come loro.

A Macclesfield, grigia cittadina a pochi chilometri da Manchester, qualcuno ce la fece. Ian Curtis, con altri tre ragazzacci – Peter Hook, Bernard Summer, Stephen Morris – formò i Joy Division, band seminale e di culto che segnò l’inizio della scena post-punk.

La storia di Corbijn regista inizia proprio da qui, dal racconto della storia di una delle figure più tormentate e carismatiche della storia della musica.

Un racconto liberamente tratto dal romanzo autobiografico di Deborah Curtis, “Touching from a distance”, dal quale Ian non ne esce come figura mitizzata, superando il pericolo della vocazione agiografica che questo tipo di analisi spesso comporta, anzi: quello di Corbijn è il racconto di un talento sopraffatto dalla totale mancanza di controllo sia sul corpo, sconvolto dalle frequenti crisi epilettiche, sia sulla vita affettiva divisa tra la moglie Deborah e l’amante Annik Honorè.

Sam Riley nei panni di Ian Curtis in Control

Quello che esce fuori è il ritratto nudo e puro di Ian Curtis, “umano troppo umano” verrebbe da dire, merito di una regia che sceglie la sobrietà e l’eleganza come via della narrazione visiva, senza mai cadere nel patetismo, neanche di fronte al momento più tragico di tutto il film, il suicidio di Ian, che il regista decide sapientemente di non mostrare. Lo preannuncia una semplice inquadratura, poi la camera stacca, a imitare il movimento degli occhi che si abbassano di fronte a uno strazio simile e infine si adagia sul vinile di Iggy Pop, The idiot, che ancora gira quando il folle gesto s’è compiuto.

E così è questa la stabilità, l’orgoglio distrutto dall’amore.
Quello che prima era innocenza ora non è più.
Su di me incombe una nube che osserva ogni mio movimento nel ricordo nascosto di quello che una volta era amore.

Questa è la storia di Ian, e Control sono i suoi occhi.

Lavori recenti

Nel 2009 collabora ancora con gli U2 dando alla luce il film del loro album No Line on The Horizon intitolato Linear, distribuito con lo stesso album o in download digitale. Nel 2012 ritorna al cinema con The American interpretato da George Clooney e Violante Placido.

Quello di Corbijn è un lavoro enorme e prezioso, sia dal punto di vista estetico che da quello storico. La sue immagini, sempre in bilico tra sogno e realtà, illuminate da luci sfibrate e sgranate, poste all’interno di inquadrature potenti in cui dialogano dialetticamente sistemi di sfocature in primo piano e sfondi perfettamente a fuoco, esasperate ora dai contrasti in bianco e nero, ora da colori acidi, ci parlano del tentativo di afferrare l’anima di un suono (perché “i musicisti sono veramente una prolunga della musica che suonano”) a partire dalle apparenze. La vera scommessa, quindi, è proprio questa: cercare nell’apparire un senso di bellezza e verità. Corbijn ci è riuscito.

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