DeLillo in Underworld lancia una palla da baseball che arriva fino a Foster Wallace

Detroit tigers Hank Greenberg batting in game

Se il baseball vi sembra un’esperienza di gioco noiosa (dicono che persino negli Stati Uniti nessuno guardi più il baseball, che stia perdendo consenso, che i ragazzi preferiscano giocare a basket), se non riuscite proprio a capire cos’è un inning o un fuoricampo, allora dovrete per forza di cosa concentrarvi sullo stile di scrittura del lungo prologo tutto d’un fiato di Underworld di Don DeLillo. Perché non va saltato, quel prologo, va intuita la profonda dimensione di questo capolavoro della letteratura del ventesimo secolo, che addirittura lo scavalca, il secolo. È un romanzo americano, che scava e racconta tutta l’America, attraverso la storia di una palla da baseball, una palla famosa, quella del fuoricampo di Bobby Thompson dei Giants contro i Dodgers.

In Underworld scopriamo che queste due squadre da New York si sono trasferite sulla costa occidentale, i Giants a San Francisco e i Dodgers a Los Angeles: ma che la rivalità profonda è sopravvissuta. Si alternano scenari tra la logica dei perdenti e quella dei vincenti, perché lo sport si muove tra queste due intuizioni e scomode realtà. Una maestria letteraria senza tempo, post-moderna, ma anche qualunque altra cosa, se post-moderno è appena il nome che diamo al nostro nuovo mondo infarcito di pubblicità. C’è la Fiat degli anni Novanta, ci sono le sigarette Chesterfield, e i commentatori radio che ancora invitano ad accenderne una negli anni Cinquanta durante lo stacco pubblicitario. C’è la pop-art, ricavata su qualunque materiale, c’è il discorso sull’arte molto americana, c’è la tremebonda ruggine dell’America affaticata dalla guerra. In una scena molto significativa e per certi versi comica, J. Edgar Hoover (la cui figura resterà sempre indissolubilmente legata all’FBI in tempi di guerra fredda) durante la famosa partita di baseball, trova per caso l’immagine di un quadro di Bruegel e resta così affascinato dalla violenza della morte rappresentata da conservare in tasca quel cimelio. E poi non resta che seguire il flusso dei salti temporali.

Dicono che questo romanzo sia il personale Ulysses di Don DeLillo, se non fosse che nell’Irlanda di inizio Novecento la storia non ruggiva ai livelli di quella americana della fine del secolo, e i riferimenti profondi di Joyce arrivano fino all’antica Grecia, parallelismi e ricostruzioni che scavalcano il tempo come se fosse un’entità ottusa. Diverso anche lo stile: Don DeLillo i punti li usa, ma non spezza mai il pathos con quei punti, non è vero e proprio flusso di coscienza ma lo resta comunque, nel passare dalla terza persona alla prima. Il romanzo è impregnato di realtà, forse è questa la chiave di volta che separa Underworld dall’Ulysses. Non è il realismo magico di Bolaño, anche se a tratti esistono dei riferimenti iperreali: la palla da baseball raccolta da un ragazzo nero della New York negli anni Cinquanta, nella realtà non è mai stata ritrovata; e immaginare che possa ricavarsi dell’arte contemporanea dalla pittura di Boeing di grosse dimensioni dentro il deserto è sicuramente un elemento di irrealtà. Una provocazione. Questo romanzo trabocca di provocazioni all’America e al suo muso duro. Hoover è una provocazione, con quel suo sguardo imperniato di voluttà di sangue e morte.

Se ha ispirato una generazione intera di scrittori che si è definita post-moderna una ragione ci sarà per il Don della letteratura americana. Come un Don Giovanni si muove alla conquista della parola, e vince la sfida del tempo: la sua palla da baseball viene lanciata attraverso il tempo del Novecento e sfonda verso il Duemila in un metafisico fuoricampo di parole. L’America è profondamente infarcita di contraddizioni letterarie, in un certo senso la sua narrativa affonda in un pop secolarizzato di contro il mondo fantastico. Mentre nel Sudamerica si creano storie viscerali e carnali, com’è giusto che sia per il Sud del mondo, l’America del Nord si guarda allo specchio e si auto-celebra: il gioioso capitalismo è il nuovo stile di vita americano, e va raccontato e sviscerato. La sfida di quella palla viene raccolta da Foster Wallace, ma questa è un’altra storia.

II. Dove sta andando quella palla da baseball?

Nel saggio E Unibus Pluram: Gli scrittori americani e la televisione, Wallace scrive: “la letteratura americana resta tuttora profondamente influenzata dalla televisione, specialmente quei filoni della narrativa che hanno le loro radici nel postmodernismo, il quale, anche al massimo della sua rivolta, con la metafiction, non è stato tanto una «reazione» alla cultura televisiva, quanto piuttosto una forma di accettazione della stessa tv“. Così la letteratura americana guarda allo specchio se stessa e il proprio sfrenato consumismo culturale, entra dentro le psicosi umane e i contrasti di un Novecento che sembra aver mutato le proprie coordinate. Certo, l’uomo non è granché cambiato dalla Russia di Dostoevskij, eppure l’uomo americano di fine Novecento ha delle ossessioni che nell’uomo russo di fine Ottocento erano diverse. È per questo che nella letteratura americana entrano le sigarette brandizzate, con un Wallace che spingerà fino agli estremi la lente di ingrandimento post-moderna.

Mi accorgo di cadere nelle trappole di chi, per diletto o per artigianato, fa la professione di chi scrive e di chi racconta: cioè, dimenticare la realtà per i simulacri e i feticci imposti dal sistema delle comunicazioni di massa“, in un clima culturale italiano che non ha pretese rivoluzionarie queste sono le parole di Pier Vittorio Tondelli a proposito della scrittura. La realtà e i feticci del sistema si confondono, eppure la nostra personale realtà è contaminata di feticci: non fumiamo solamente una sigaretta ma una certa marca di sigarette, non beviamo solo una birra ma una certa marca o sottomarca di birra, e simulacri e feticci del sistema delle comunicazioni di massa ci circondano sempre di più, tanto che persino la comunicazione umana oggi è finanziata dai grandi monopoli creati dall’era digitale. Così, la palla da baseball lanciata da Don DeLillo è una vera e proprio sfida alla realtà, e oggi questa palla si trova a fare i conti con un mondo ancora più complesso, dove sono emersi dei veri e propri monopoli che hanno reso le nostre vite sempre più monocordi o piatte.

Farò un esempio. Uno degli uomini più ricchi e rappresentativi dell’1% di quest’era è il fondatore di Zara: il suo successo si basa sul ridurre i costi dei suoi prodotti e renderli accessibili alla maggior parte del restante 99%. Così, non ci stupiremo di trovarci a camminare per le strade del mondo a vestire la stessa identica camicia insieme a un mucchio di sconosciuti, e la cosa fa sembrare alquanto ridicola l’ossessione culturale dell’uomo “occidentale” per la liberazione della donna in Medio Oriente dal velo. Le stesse città – perdute in parte le loro tipicità – diventano città fantasma, fanno risuonare ossessive il loro identico sottofondo pop, e la realtà e i suoi feticci si intrecciano magnificamente. La ragazza metropolitana che usa Uber a tarda notte per tornare a casa è ovunque (dimentichiamo pure per un attimo i problemi che Uber ha in Italia), la stessa ragazza sarà devota a un certo numero di marche, userà prodotti di quelle particolari marche, seguirà su Instagram i prodotti di quelle particolari aziende che producono determinate marche, ascolterà un certo tipo di musica prodotta da un certo tipo di etichetta discografica. Da questo intreccio emergerà la sua personalità perfettamente contemporanea.

Così non ci stupirà quando uno dei protagonisti de La scopa del sistema di Wallace si innamora di una ragazza e delle sue Converse nere modello alto. Wallace ha provato a dirci una cosa piuttosto interessante a proposito della contemporaneità: la nostra personalità trova una sua espressione anche grazie a questi oggetti. Quando ci innamoriamo di una personalità contemporanea di cosa ci stiamo innamorando di preciso, dei feticci culturali che la circondano e delle sue fissazioni, o della sua anima profonda? E come distinguere i due aspetti in modo netto? Questo non vuol dire che siamo totalmente intrappolati nella realtà e senza via di scampo, perché anche se il post-modernismo si è caricato di certi feticci non ha perduto di vista la questione più fondamentale: l’umanità, quella che dalla vecchia Grecia a Shakespeare continua a perseguitarci come un’ombra. Le stesse domande di sempre. Se a farsele è una giovane ragazza che indossa ai piedi un paio di Converse nere modello alto, alle quattro del mattino dentro un’auto Uber che passa la musica in radio di un vecchio successo degli Ottanta, che importanza ha.

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