#JesuisCharlie o di quanto sia facile erigersi a difensori della libertà

L’undici settembre 2001 eravamo soltanto bambini, tutti davanti alla televisione a non capire cosa stesse succedendo, eppure ci si è impresso nella memoria senza andarsene più. Quel giorno a New York qualcosa era cambiato, e non era solo per le vittime. Gli americani si sentivano più scoperti e fragili e si palesava quell’impossibilità di giocare con l’ordine mondiale credendo non ci sarebbero mai state conseguenze. Ci sono state, poi, Londra e Madrid, ma anche lì, per una cosa o per l’altra, eravamo ancora troppo lontani. Una cultura e una distanza geografica ci tenevano ancora al sicuro, liberi di darci agli allarmismi ma non a proteggerci davvero. Forse perché erano persone troppo comuni per farci paura, forse perché dagli anni di piombo non abbiamo mai imparato nulla. Nel frattempo siamo cresciuti e quando abbiamo assistito all’attacco della libertà di espressione a Parigi lì, sì, è stato troppo e ci siamo sentiti scoperti. Perché era quel nervo fastidioso che ti dice che, poi, la tua pelle non è così dura come pensavi e alcune libertà non sono così scontate. Oltre lo sdegno, i populismi di qualche Savonarola moderno, blu, verde e pure nero, c’è stato però altro. Mentre, fino a due giorni fa, eravamo #tuttimarò, seguendo quell’assioma per cui se sei occidentale e ammazzi qualcuno in un altro paese è giusto che tu venga processato, e assolto, nel tuo paese d’origine, in faccia a tutte gli ideali di giustizia e uguaglianza, internazionali e non, e condannavamo Greta e Vanessa rapite in Siria, o il medico di Emergency che ha contratto l’ebola perché se la sono andata a cercare, ieri ci siamo tramutati in Charlie Hebdo, senza pensarci due volte. Paladini virtuali, in tutti i sensi, di una libertà di stampa, di cui fino ad ora non ci era mai importato. Dimenticando quanto nel nostro paese un giornale del genere sarebbe stato censurato da tempo, vittima di un’altra religione, che non fa vittime ma che oscura, le cui sentinelle in piedi non portano con sé Kalashnikov ma libri d’offesa. Non è mai morto nessuno, ma non esistono attacchi alla libertà di pensiero più o meno grandi, che lo si voglia credere o meno, tutti contribuiscono ad ampliare un vuoto che, dopo i fatti di Parigi, non può più essere coperto. Perché come quegli Stati Uniti, quattordici anni fa, anche noi ci siamo risvegliati più fragili e deboli, ancor più incapaci di difenderci dalle pieghe razziste o dalle teorie complottistiche. Ed è questo, se è possibile farlo, che uccide due volte non solo la redazione di Charlie Hebdo ma tutti quelli che, credendo nella libertà di stampa, si sono trovati a fare i conti con gli integralismi, di tutti i tipi.

Che la coperta si fosse fatta più corta per tutti non era una novità, ma fino a ieri in tanti non sentivano ancora freddo. Poi a Parigi sono state attaccate le torri gemelle della cultura occidentale e nessuno poteva più far finta di niente. Paradossalmente viviamo in un mondo libero ma che non sa cosa farsene di quella libertà, che non sa come mantenerla o nutrirla, tanto da essere più che felice di farsene sottrarre un po’ alla volta, in un modo o nell’altro, almeno finché non viene attaccata dall’esterno e il rischio di perderla la rende ancor più desiderabile. È uno dei tanti complessi di una società che fa fatica a comprendere cosa le sia necessario e cosa no. Così l’emozione del momento ci ha portati tutti a essere Charlie e difensori di una libertà di opinione che non contribuiamo più a far esistere. Compriamo meno giornali, ascoltiamo meno persone, e crediamo di aver tutti qualcosa di più giusto da dire rispetto agli altri. Fenomeni preoccupanti già di per sé ma arginabili se, dietro, ci fossero alcuni pilastri fondamentali, capaci di allontanare senza tentazioni il fantasma dei populismi e delle verità facili. Così, non è, e si vede anche dal modo in cui si respingono gli attacchi ai centri nevralgici della società. Una società con una cultura forte – e per forte si intende capace di sapere quello che vuole – scende in piazza tanto per ricordare le vittime quanto per sostenere i fondamenti della sua esistenza. Una società con la pretesa di esserlo, senza una vera cultura, sotto l’empatia del momento a una soluzione ragionevole sceglie sempre la giustizia sommaria. Non è difficile capire in quale piazza stiamo scendendo noi per mostrare le nostre matite e se è quella in cui vogliamo davvero stare. Perché, che lo vogliate o meno, le rivendicazioni di certe persone secondo cui è giusto perseguitare qualcuno, ma che hanno la memoria corta ed elogiano il modello russo (lo stesso che con i giornalisti dissidenti non è mai andato d’accordo, basti pensare all’affaire Politkovskaja), hanno successo quanto più il vuoto culturale si amplia e uscire da una seduzione così semplice e che incolpa tutti, e mai se stessi, è sempre più difficile. Perché è da quell‘impasse culturale che proviene il nostro integralismo come quello che ha sparato a Charlie Hebdo.

È tanto facile svegliarsi ed essere tutti Charlie, quanto lo è cavalcare l’onda e dire che il vero nemico dell’occidente è l’Islam e che siamo in guerra, e che è necessario chiudere le frontiere e tornare a indossare i cappucci bianchi lasciati sul Mississipi. Più difficile è essere se stessi, e ricominciare a costruire dove gli altri tentano di distruggere.

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