Yakamoto Kotzuga – Usually Nowhere

Per una volta, facciamoci raccontare una storia. Di quelle dove le metropoli finiscono nel nulla e nei campi. In mezzo alla gente che torna dal lavoro, degli studenti che escono da scuola, di tram affollati ed ecomostri a farci da panorama. La città ha un suo rumore, ma anche nei canneti della laguna veneziana, dove fai fatica a vedere al di là del tuo naso, non sono poi così silenziosi. Tutto diventa così freddo se non gli dai una possibilità e quello che ti rinchiude, poi, è sempre lo stesso odio che ti permette di capirne i limiti. C’è che gli devi dare un senso per scovarci l’armonia di fondo e trovarci le strutture e i movimenti che lo compongono. Una mappa sentimentale del tuo pensiero, avida di materiale da costruire. Quello che perdi te lo porti dietro, mentre tutto scorre, e credi vada bene così. Bisogna dargli un nome per poterlo realizzare, dargli un suono è tutta un altro modo di affrontare le cose. Torino centro – Mirafiori. Dalla città all’apparato industriale, come gli amici passati alle Marlboro direttamente all’eroina, per citare qualcuno a noi caro. Ma anche da Venezia a Milano, il percorso inverso, poi, non è così distante. Certi suoni ti entrano dentro e devi trovare un modo per farli venire fuori, senza voler nemmeno provare a entrare dentro la macchina di produzione che ha portato Giacomo Mazzucato, alter-ego di Yakamoto Kotzuga, in quel luogo chiamato Usually Nowhere. Si tratta, dopotutto, di transitorietà, di chi si trova sbattuto qua e là, senza punti fermi e con a malapena le forze per provare a raccontarsi, ma più che una sorpresa è una bella conferma di quello che era già in embrione negli Ep e nelle live sessions a cui abbiamo assistito. Ma non si ferma lì.

È un suono ruvido che ti entra nelle ossa, che sa di cemento e di smog, di quello che non ti fa apprezzare l’aria buona perché, ormai, ti sei fatto una ragione. È il carattere che possiamo dare a un certo tipo di musica elettronica che si dà la possibilità di avere un respiro internazionale, capace di uscire anche da questo paese fatto di piccole città e da piccole persone che non sanno cosa dirsi per sentirsi immersi nel tempo che vivono. Affonda le radici nel post rock, per darsi un punto di partenza, arrangiando i suoi movimenti in definizione di un’atmosfera capace di rievocare i passi di Fennesz nell’ambience techno degli anni ’90. Ma dare delle definizioni risulta sempre un po’ limitativo. È appunto, quell’Usually Nowhere, un purgatorio di transizioni, dove influenze e sensazioni si mescolano. È la capacità di raccontare quello che viviamo senza uso di parole a lasciarci ancora un po’ sospettosi, ancora troppo acerbi per accettare un mondo svuotato da tutto, che è sempre qui e a volte non sembra nemmeno sfiorarci. Yakamoto riesce a metterci in contatto con questa alterità, di chi e scatenata da cosa non è compito del messaggero chiarirlo. Parlare di questo disco è, e dovrebbe essere sempre, un immagine delle sensazioni che ti evoca. Perché è la musica elettronica in costante evoluzione a non permetterti di riflettere se sia professionale o meno farlo, o se le descrizioni che gli dai corrispondano davvero a quello che ci vedi tu. Il fatto è che quando un discorso ti porta a un altro, in una piramide di ascendente complessità, il punto che ti fa partire assume, quasi sempre, una certa sacralità. Non si parla mai di come si arriva in un certo posto perché raccontiamo poco le cose che ci hanno raggiunto nella profondità.

Dai beat morbosi alla sapienza del rumore bianco, è la colonna sonora di un salto nel buio che non si accontenta di sé. Vuole uscire, farsi spazio come il desiderio di attività dopo una sbronza. Complesso e strutturalmente coerente si prende la strada di notte quando tutto è già finito per indicarcene un’altra. Forse è troppo presto per noi, per potercelo permettere, ma dopotutto è una questione di quanti motivi hai per metterti a disposizione e lasciarti raccontare la storia di quanto sei disposto a perdere ogni giorno e su quanto sei disposto a credere che, tutto questo, abbia una sua poesia.

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