Calcutta: fra Mainstream e nuovi pop

Ammettiamo che al primo ascolto di Che cosa mi manchi a fare non eravamo rimasti così colpiti, nonostante fossero in tanti a spingerti verso quella direzione. Ammettiamo che è successa la stessa cosa anche con I Cani e i Thegiornalisti. Poi ci è entrata in testa e non abbiamo fatto altro che ascoltarla. E sono quei due i riferimenti, tra il mondo citazionistico e i tributi che in Mainstream si sprecano, a farci dire che questa corrente italiana è, probabilmente, l’unica davvero capace di raccontare piccoli stralci del nostro contemporaneo, con una dolce poetica. Calcutta è fondamentalmente questo, immagini personali che hanno senso in un universo collettivo. Ci sono determinate caratteristiche che possono portarci a una conclusione del genere, oltre alle coordinate affettive che si muovono e tendono ad appassionarti. Scostiamoci immediatamente dalla corrente generazionale e dai cantori della giovinezza. Siamo in un altro dominio, una lucida rappresentazione dell’oggi che dei suoi protagonisti narra soltanto alcuni aneddoti, ne dà dei punti di riferimento ma sono foto di classe in cui ritrovare quello che siamo diventati.

Come le migliori storie romantiche anche quella di Calcutta, fra Roma e Latina, poi Bologna, gli scantinati e il primo Forse.. del 2012, lascia tracce dappertutto. I luoghi geografici appunto. Dopo vent’anni non siamo così cambiati e ancora si vedono le piccole correnti da una parte all’altra del paese. E quanto contano ancora. Si parla sempre delle cose che si conoscono meglio, degli abitanti del quartiere dei Parioli o delle gite fuoriporta. Ma è il modo che fa di queste tre produzioni un qualcosa di diverso. Il cut-up musicale, che mescola tante cose, un nuovo pop che trascina nella sua semplicità non è nulla di nuovo ma riesce a toccare certe corde che rendono più trascurabile l’uso della voce, creando l’ambientazione giusta perché un immaginario personale si formi. È un cantautorato diverso, a metà fra la cura musicale e quella dell’importanza dei testi, da Dalla e Battiato alla vendittiana Le barche. È importante il cambiamento e l’abbandono della sola chitarra, ancora un passo dalla tradizione al suo sconvolgimento. Ostico e ruvido il primo Calcutta scompare solo apparentemente per una evoluzione verso un mainstream (per quello che vuole dire), quando due persone si trovano nel posto giusto e si uniscono creando qualcosa di bello. È un centro importante quello che raggiunge.

È il mondo nuovo, forse la più interessante corrente nel nostro paese, è il racconto quotidiano che usa marche di prodotti riconoscibili, nomi di medicine, avvenimenti di cronaca e sportivi per scatenare un’immedesimazione che ha a che fare con i ricordi, non più solo con l’umore del momento. Di solito funziona così, tendiamo a non credere alle cose che ci solleticano certe parti fragili, e servono più ascolti per comprendere fino in fondo quanto possano contaminarci e, poi, è sempre troppo tardi per tornare indietro. Tutto sommato è proprio come la favola del Frosinone che sale di categoria per la prima volta con l’intenzione di restarci. In questo rientra la presenza di Niccolò Contessa, tra i primi a sdoganare questo genere e che ricorre tanto nel disco (e nella produzione). È come se fossimo preparati per la prima volta a qualcosa di nuovo, e fossimo in grado di comprenderlo meglio. Ritorniamo, immediatamente, al ruolo degli iniziatori, i cui pezzi ogni giorno di più acquistano in significato, azione retroattiva di chi non è abituato a sentire parlare di sé alla radio.

Quello che appare lampante è il punto di svolta dietro tutto questo. Calcutta è un progetto interessante, le parole che usa sono levigate perfettamente per essere incastrate con queste sonorità. E allora si può non comprendere, e non esserne attratti, ma darne il giusto valore è qualcosa di fondamentale, anche per quello che verrà dopo, che si tratti del nuovo mainstream da ragazzini o di qualcosa di più. Forse perché le attese ce le siamo fatti tutti, e le preghiere perché qualcuno si facesse attendere alla stazione solo per noi sono gusti romantici da cui non possiamo prescindere. C’è un’ironica presa di coscienza, diversa da quello che succede alla Milano ospedaliera dell’omonimo brano, o di quello delle isole, caratterizzato da molta più malinconia di un Colapesce o un Dimartino. Accettare quello che succede, dall’imbarazzo e dalla chiusura nel lavoro, o come la fine di un’estate piena delle sue mitologie. Non è una rassegnata visione delle cose, se una malinconia c’è è piuttosto per il tempo passato in termini di occasione, come sono andate le cose invece sono soltanto verità già scritte. (8/9)


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