(Mai) chiudere il cerchio: la lezione degli Arcade Fire

Arcade Fire - live @ Firenze Summer Festival

Saper chiudere i cerchi — in generale, nella vita — è considerato un pregio, se non proprio un talento. Mica a caso: non è affatto semplice prendere quel ritmo altalenante ma esatto che confonde l’inizio con la fine, ripeterlo con precisione svizzera provando a ogni giro ad aggiungerci del tuo. Se ti fermi troppo presto, il cerchio rimane aperto, diventa un arco e poi rimettersi in moto o ritrovare la strada è quasi impossibile. Altrimenti il rischio è — ad ogni tornata — di mancare l’aggancio, anche solo di un centimetro: in quel caso, se sbagli per difetto, finisci per rotolare seguendo una spirale interna che ti porta inevitabilmente a implodere su te stesso; se invece eccedi — che sia per distrazione, generosità o troppo entusiasmo — vieni spinto via da una sadica forza centrifuga, come un sacchetto di plastica vuoto un attimo prima della tempesta in un western metropolitano. Serve una specie di danza alternata, una qualche trattenuta, elastica estensione: come l’arpeggio di Street Spirit. Non necessariamente così perfetta, ma l’idea è quella.

Di saper danzare — e soprattutto di saper farci danzare — gli Arcade Fire, negli ultimi anni, ne hanno dato più che una prova. Dopotutto, era un passaggio quasi obbligato — a suo modo catartico — per una band che aveva iniziato con un funerale, proseguito con una messa e fatto il botto con un viaggio a occhi chiusi nella periferia delle loro adolescenza, anche se i primi singoli rilasciati nell’ottica di preparare il terreno per l’imminente quinto album sembrano accentuare in maniera anche troppo pesante questa tendenza, che qualcuno — non a torto, dopo Reflektor — ha definito “la james-muphycazione” della formazione canadese.

Non è un caso, in questo senso, che ad apertura delle loro due date italiane siano stati scelti gli Hercules & Love Affair, capitanati dall’ennesimo Butler della serata (Andy) — chissà se è un caso questo, invece — in consolle, che hanno dato a loro modo spettacolo — soprattutto grazie ai due istrionici vocalist Rouge Mary e Gustaph — riscaldato gli animi e sincronizzato i muscoli dei primi arrivati nel tardo pomeriggio, con la loro nu-disco gender-fluid. Avrebbero meritato un palco più piccolo, meno dispersivo e forse anche un locale chiuso, affogato in una notte fonda, per dare davvero il meglio.

Rimane il fatto che nell’attesa di questa data fiorentina (che segue subito a ruota quella milanese di ieri) la curiosità riguarda prevalentemente proprio questo lato della faccenda: capire se quella che pare imboccata è proprio una strada o l’ennesimo diversivo di una band che non ama darci sicurezze — almeno in termini di etichette e generi musicali. In altre parole, vedere se — anche dal vivo — qualcuno avrebbe percepito come confermata la sensazione che, tra tutte le cose che una delle più grandi band del panorama indie poteva voler diventare, in cima alla lista di tutte le cose che una delle più grandi band del panorama indie stava riuscendo a diventare (con ottimi risultati, tra l’altro), ci fossero sul serio gli Abba. Non che la cosa stupisca, o dovrebbe stupire più di tanto: nel senso, posso dire che il quartetto svedese rappresente una delle cose più lontane dai miei gusti musicali, ma credo allo stesso tempo che la questione dovrebbe essere analizzata da un altro lato. Ovvero, se la tua band potesse essere qualunque cosa — qualunque cosa tu voglia davvero — se tu avessi i mezzi, lo status, il successo, l’abilità, la fiducia incondizionata del tuo pubblico e quel che basta di faccia come il culo, chi altro dovresti desiderare essere se non gli Abba? Che male ci sarebbe a chiedere al genio della lampada che anche il tuo possa essere ricordato come uno dei più grandi — e soprattutto più amati — pop-act della tua epoca?

Ma sto divagando.
Soprattutto perché — col senno di poi, alla fine della storia — le poche tracce di pseudo popular-disco anni Settanta non lasceranno né dolorose ferite aperte nè innocui pruriti, e quasi ce le saremo dimenticate, con gli occhi pieni fino all’orlo di tanto rock — whatever that means — e di un’energia colorata a livelli diabetici, in mezzo una specie di carnevale a metà.

La scaletta è ancora una volta diversa: gli Arcade Fire prendono la setlist di Milano e la rivoltano come un calzino, in un testa-coda che di nuovo ha il sapore circolare del concetto “the end is the beginning is the end”. Wake Up viene raccolta ancora calda dall’encore menghino e sparata subito in apertura come a dare — perdonate la banalità — la sveglia. Seguono Here Comes the Night Time, la title-track del nuovo Everything Now, Chemistry e poi la recentissima Electric Blue. E così via in una serie di montagne russe cronologiche tra cui spiccano The Suburbs e The Suburbs (continued), rispettivamente prima e ultima traccia dell’omonimo disco, che qui vengono invece proposte una di seguito all’altra, come a chiudere (di nuovo) il cerchio di un Grammy Award per il Best Album del 2011 nel giro di cinque minuti. Cerchio da cui fanno in tempo a scappare Ready to Start e Suburban War, che saltano fuori dal recinto appena serrato e come al solito si rivelano due tra gli episodi più trascinanti di tutto il set.

Régine Chassagne e William Butler portano su un altro livello il concetto di “polistrumentista”, con quest’ultimo che nel frattempo si contende lo scettro di “miglior troll/giullare di palco” in una gara senza fine contro un Richard Reed Parry (difficile decretare il vincitore, alla fine — optiamo per un ex-equo) dallo spirito come al solito infuocato almeno al pari dei suoi capelli. Sarah Neufeld è la sorella maggiore secchiona che avresti sempre voluto: quella che sta tutto il giorno a esercitarsi con il violino nella sua stanza e che maledici a voce alta, insultandola, pregandola di smettere, perchè sta suonando uno strumento da vecchi e te invece vuoi sentire l’indie-rock su Spotify — in realtà perché questa è la parte che devi recitare, da fratello minore — ma poi, di nascosto, rimani ore ad ascoltarla estasiato da dietro la porta socchiusa. E Win Butler? Win Butler fa quello che deve fare: canta e si muove da protagonista, duetta con il pubblico, si immerge nella folla, si ritira nell’ombra e lascia la scena ai compagni quando è il momento di allentare la tensione. In altre parole fa il leader, perché sì, proprio la capacità di capire quando fare un passo indietro è una delle principali caratteristiche del ruolo che si è scelto (o che il destino gli ha dato in sorte).

E non solo loro: in totale si contano sul palco circa una decina di persone indaffarate, la cui principale caratteristica è quella di sembrare una folla esagitata, sempre in bilico sull’orlo del disastro musicale, quando invece nessuna sensazione potrebbe essere più lontana dalla realtà. In effetti, si tratta dell’esatto contrario: ognuno sa esattamente quello che sta facendo e quello che dovrà fare tra un attimo, che è una cosa completamente diversa da quello che ha appena fatto un attimo prima. In termini di coscienza del proprio ruolo nella performance li posizionerei a un livello di anarchia che sta giusto un briciolo sopra una parata militare nord-coreana. Eppure saltano, scorrazzano, si scambiano strumenti, compiti, voci e controvoci: insomma, fanno più di quel che possono per darti l’impressione sbagliata, ovvero che tutto l’ambaradan possa da un momento all’altro collassare in una bolla di macerie sonore. Cosa che — ovviamente — non accade. Mai.

Pur essendo questa volta — soprattutto se paragonato a quelli del tour precedente, in particolare se guardiamo agli effetti scenici, all’imponenza del palco ed all’esibizionismo meno appariscente nel vestiario — di fronte a uno show quasi sobrio (se questa parola accostata agli Arcade Fire non rischiasse di superare i confini dell’ossimoro) l’atmosfera che si percepisce, costante, fitta e inequivocabile è quella di opulenza musicale, mista alla conferma che ormai anche la parola “indie” stessa, al loro cospetto, non abbia più questo gran senso. Con un disco da promuovere in arrivo, lascia infatti piacevolmente sorpresi il fatto che lo spazio dedicato a Everything Now sia quello che è: Butler e compagni propongono un viaggio perfettamente equilibrato attraverso la loro discografia, un greatest hits ragionato come fossero una band dalla carriera trentennale. Più che gli Abba, a tratti — per l’atteggiamento — sembrano i Queen, ovvero un gruppo con un ben preciso obiettivo in testa: dimostrare al mondo che possono suonare qualunque genere musicale almeno ai livelli dei maggiori esponenti di quel particolare genere musicale. E quando dico “qualsiasi”, intendo qualsiasi. Lo fanno con la stessa faccia tosta, ma con meno supponenza della band di Freddie Mercury, alternando le angosce del passato con la malcelata spensieratezza del presente. Un collettivo che ha toccato tutte le tappe di quella via crucis chiamata successo, dall’effetto sorpresa allo status di next big thing, dal sentirsi un riferimento per la scena internazionale all’essere una cosiddetta band da stadio (da ippodromo, diciamo, viste le location scelte per questo mini-tour italiano — e mai definizione fu più azzeccata, visto che sono tutti quanti, a tutti gli effetti, dei bei cavalli di razza). Una band estremamente intelligente che non si fa intimorire dall’equazione indie-rock = serious business, che ha capito — questo sì, davvero, come gli Abba — che quell’affare stramaledetto serio e un’estasi musicale fatta di paillettes, costumi e lustrini, una solida melanconia di fondo colorata da uno strato di zucchero filato in superficie non sono semplicemente compatibili, ma anzi complementari. È tutto pop, e ogni altro tentativo di far gerarchie di genere o di mood al suo interno è una perdita di tempo.

“God, make me famous / If you can’t just make it painless” cantano nell’ultima delle anteprime dal nuovo album — Creature Comfort, a mio parere l’episodio migliore tra i quattro inediti presentati fino a adesso e che qua a Firenze ha il delicato compito di chiudere il set principale. Ecco, non so quanto sia stato doloroso il processo che hanno attraversato questi ragazzi, quanto è stato complicato il rapido cammino che li ha portati dai sobborghi di Montreal alle stelle, ma se — come pare — è stato sopportabile e non si è lasciato dietro troppi cadaveri, direi che il buon Dio — a oggi, almeno a vedere il mare di mani che oscillano all’unisono stasera (quante? “Cinquantamila!” diranno i miei piccoli lettori — no, meno, ma abbastanza comunque) può tranquillamente evitare di perder tempo a cercare soluzioni dell’ultimo momento per mettere in pratica la seconda parte della supplica che — alzi le proprie, di mani, chi nutre dei dubbi al riguardo — non ha (e mai più avrà) ragione di essere.

I bis sono “soltanto” due, ma da soli potrebbero valere il prezzo del biglietto: una Neighborhood #3 (Power Out) semplicemente devastante, con Régine che finisce per maltrattare lo xilofono con la furia con cui un batterista metal suonerebbe la sua doppia-cassa, seguita da quella che — nonostante tutto, ancora adesso — rimane una delle canzoni più attese durante i live della band, introdotta da quell’opening che ormai in Italia — grazie a Lilli Gruber — conoscono tutti (e quando dico “tutti”, intendo tutti — anche quelli che credono che Arcade Fire sia un vecchio videogame anni 80 in cui un pompiere con i baffi doveva salvare una gentile donzella accaldata dalle grinfie di un gorilla piromane). Rebellion (Lies) di solito viene proposta in apertura, ma questa volta — precisa, dettagliata e confortante come un “Punto di Paolo Pagliaro” — ha l’ingrato ruolo di annunciare la fine delle danze in quel ribaltamento tra fine e inizio che accennavo un po’ di righe fa e che chiude l’ennesimo cerchio della serata.

Rimane solo il tempo di seguire — un po’ stupiti, a bocca aperta, ma non troppo — William che sulle note finali abbandona il palco e, accompagnato dal solo fido tamburo, scavalca le transenne e si lancia in una corsa forsennata lungo tutto il perimetro dell’ippodromo (circolare, anche quello). Nessuno ha la prontezza di cronometrare il tempo sul giro, e il premio per la migliore prestazione va quindi al tecnico che manovra il seguipersone (ai più noto come “occhio di bue”) che riesce con quel cerchio perfetto (sì, un’altro) di luce a stargli dietro maniera quasi certosina, illuminandolo senza sbavature almeno finchè non scompare all’orizzonte. Chissà dove. Chissà per quanto.

Mi piace pensare che stia ancora correndo, come un satellite impazzito ma costantemente in orbita attorno alla band del fratello, a perenne influenza sulle sue prossime stagioni e maree, che ancora avranno molto da raccontarci. La verità è che invece, poco dopo, ricompare magicamente sul palco, tutto sudato, con il tamburo praticamente distrutto, per i saluti finali. Perchè i cerchi, finchè si può, vanno (quasi) sempre chiusi, e tornare a casa è spesso il modo migliore per ripartire verso qualcosa di più grande, di più bello, di più lontano se necessario.

Quasi.
Sì, perché gli Arcade Fire anche stasera hanno dimostrato — e lo hanno fatto con una naturalezza disarmante — che chiudere un cerchio non vuole necessariamente ritornare sui propri passi e ripetersi in un endless loop che manderebbe in tilt anche il più sofisticato algoritmo, ma che basta — si fa per dire, mica semplice — aggiungere una terza dimensione all’equazione della curva per uscire dall’impasse e finire a giocare a rincorrersi lungo una specie di spirale 3D (tecnicamente credo si chiami elica — ma vorrei evitare di ammazzare la poesia con nozionismi di geometria spaziale), salendo così all’infinito lungo una sorta di DNA in continua evoluzione.

Verso chissà cosa.
Chissà per quanto.


Foto di Simone Fiorucci

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