A Ciambra: perché la comunità rom rappresenterà l’Italia agli Oscar

“Dopo gli immigrati clandestini, i Rom. Possibile che il grande Cinema italiano non abbia di meglio da proporre?”

Così esordiva Matteo Salvini, qualche giorno fa, commentando la notizia della scelta di proporre A Ciambra come rappresentante dell’Italia agli Oscar, con uno dei suoi irriverenti post su Facebook. Grazie a questa candidatura, il film in questione ha avuto una distribuzione leggermente più ampia nella varie sale italiane, senza restare relegato alla 70° Edizione del Festival di Cannes o a qualche sala d’essai. Ora non sappiamo se il film dell’italo-americano Jonas Carpignano, classe ’84 e con all’attivo due lungometraggi e alcuni corti, verrà scelto e inserito nell’ambita cinquina per gli Oscar come miglior film straniero, ma è giusto che un film come questo rappresenti l’Italia?

Per chi non ha avuto ancora modo di vederlo, A Ciambra ha come protagonista Pio Amato, ragazzo sui 15 anni che vive in una comunità rom di Gioia Tauro, in Calabria. Quando sia il padre che il fratello vengono arrestati, si ritrova ad essere lui l’uomo di casa. Pio si confronta con diverse realtà: con la famiglia numerosa, rumorosa, sconclusionata alla Brutti, Sporchi e Cattivi (E.Scola, 1976), con i profughi clandestini (tra cui c’è il suo amico Ayiva) e, ovviamente, gli italiani del posto. Pio e i suoi fratelli fumano, bevono, rubano: ci troviamo di fronte a bambini irrequieti e indisciplinati, condizionati dalle persone con cui sono a stretto contatto.

Ma il film di Carpignano è molto di più: si approccia a questi personaggi con uno stile quasi documentaristico, attingendo alla scuola neorealista l’uso di non-attori. Pio e tutta la sua famiglia interpretano (o meglio sono) se stessi. Senza chissà quale citazionismo, A Ciambra si ispira a una vicenda vissuta dal regista: gli viene rubata la macchina a Rosarno, un suo amico gli consiglia di rivolgersi alla comunità di zingari che viveva lì (quella di Pio). All’inizio è infuriato, paga un riscatto e recupera la vettura. Col tempo, impara a conoscere quelle persone, divenendone un amico intimo. Grazie a questo, Carpignano può immergersi totalmente nel loro mondo, non edulcorando mai i fatti raccontati e riuscendo a districarsi alla larga da un buonismo nel quale è facile imbattersi in questi casi.

Ci troviamo di fronte a quello che è a tutti gli effetti un racconto di formazione (unico neo del film è, a mio parere, un finale tipico un po’ scontato), lucidamente spietato e coerente con la realtà. Il protagonista di Mediterranea (lungometraggio d’esordio del regista) non aveva scelta, costretto a intraprendere un viaggio lunghissimo dal Burkina Faso a Rosarno, rimanendo in Italia nonostante gli sfruttamenti e le ingiustizie sul lavoro. Apparentemente Pio questa scelta ce l’ha, decide cosa è giusto e cosa no, sceglie se dar retta alla famiglia o agli amici. La verità è che le sue scelte sono vincolate a qualcosa di più grande, imposte dalle circostante in cui si trova e da uno stile di vita gitano molto diverso, ad esempio, da quello del nonno durante la sua gioventù. In una delle sequenze più suggestive del film, tra fuochi fatui e animali guida (un cavallo), il nonno racconta a Pio che prima viveva da nomade, in strada, senza fermarsi in un posto fisso e senza dover sottostare alle regole di nessuno.

Per questo l’unica cosa che è richiesta allo spettatore è di avere una certa sensibilità nel capire il punto di vista del giovane Amato: il suo viaggio dall’età dell’innocenza alla maturità non è solo il frutto di scelte personali. È quasi costretto a comportarsi in questo modo, influenzato sia dalle persone che lo circondano (italiani, polizia o ‘ndragheta), sia da quella tradizione atavica che si porta dietro (simbolica la sequenza del funerale).

Carpignano non giudica. Così dovremmo fare anche noi durante la visione del film, che può essere frainteso e il suo messaggio adulterato da un pubblico che facilmente potrebbe trarre conclusioni affrettate. Ogni comunità mostrata nel film (rom, italiana, e via dicendo) è tratteggiata il più verosimilmente possibile. Questa pellicola, insieme al lungometraggio d’esordio del regista, resta una visione doverosa in questo periodo. Uno spaccato di vita autentico, una realtà che ci riguarda in prima persona, vista attraverso gli occhi di Pio. Così come quel pastore abbruzzese, quella casalinga di Treviso e quel bracciante di Lucano alla fine di Sogni d’Oro (N.Moretti, 1981) vanno a vedere quel film tanto impegnato e di nicchia di Michele Apicella, cosi dovrebbe succedere per A Ciambra. Credo non sia un film per un pubblico da festival, non si deve limitare (e limitarlo) solo a quell’ambiente.

Può darsi che quel Martin Scorsese tra i produttori esecutivi abbia inciso molto sulla decisione di far rappresentare l’Italia agli Oscar al film di Jonas Carpignano. Ritengo però che sia un film all’altezza del compito assegnato. Il cinema italiano ha bisogno di film del genere da proporre: come successo con Fuocoammare (G.Rosi, 2016). Che piacciano o meno, anche non cambiassero la posizione personale o sociale rispetto a certe realtà, possono in ogni caso spingere a una riflessione, all’apertura al dialogo, a intaccare (seppur minimante) quella che sembra essere un’inscalfibile forma mentis italiana, alla ricerca del facile caprio espiatorio. Anche senza Oscar, sarebbe una vittoria di cui andare fieri.

a cura di Leonardo Bastianini

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