Intervista a Valeria Gradizzi, la fotografa dietro White Shadow

Uno dei ricordi più cari che albergano la mia memoria ha come fulcro della vodka polacca bevuta al grido di na zdorovye da porta rullini neri usati come bicchierini, attorno ad un tavolo di un hotel a Cracovia, nel cuore della notte del Febbraio 2014. A brindare con me a quel tavolo c’erano due delle più grandi personalità della fotografia che abbia avuto la fortuna di incrociare durante il mio giovane cammino: Ivo Saglietti e Valeria Gradizzi.

La fotografia è l’amante segreta del tempo e il tempo vola, le città cambiano, le persone si perdono di vista. Non ho mai del tutto però perso di vista né Ivo, né Valeria. Di lui seguo continuamente interviste e ogni tanto ci scriviamo ancora, di lei pochi anni dopo quell’ultimo saluto in terra polacca, ho sentito parlare per via di un progetto interessantissimo di cui si stava e si sta occupando, White Shadow – Under the Mango Tree.

Valeria Gradizzi poco prima  dell’intervista al Comodo64 di Torino, ©Ivan Cazzola

Il progetto riguarda una comunità di bambini albini della Tanzania che vivono rinchiusi per motivi di sicurezza all’interno di un’abitazione controllata 24/24h da guardie armate. Ho incontrato Valeria a Torino dopo quattro anni per chiederle di parlarmi in maniera più approfondita di questo suo lavoro.

Avevo quasi dimenticato il suo forte accento veneto, la sua energia e quel suo sguardo così pieno di vita. L’emozione è stata tanta, tantissime le cose da dirci dopo quattro anni di silenzio ma macchinequasi subito abbiamo iniziato a parlare del suo lavoro.

© Valeria Gradizzi

M: Valeria sei una persona sincera, concreta e con una grande energia dentro, quindi partirò subito in quarta con te: chi sei e quando nasci come fotografa?

V: Innanzitutto sono una persona che fin da piccola ha cercato la fotografia. L’ho cercata sempre per un solo motivo: far vedere agli altri qualcosa che per un motivo o un altro non potessero vedere. Tutto ebbe inizio quando ero abbastanza piccolina, mia madre si ammalò e dato che all’epoca era diverso da ora, fu ricoverata e costretta in ospedale senza poter tornare a casa per molto tempo. In quel periodo mi avevano regalato una macchina fotografica della Kodak e a me sembrava così strano che lei non potesse più vedere cosa succedeva in casa, che iniziai a scattare foto in casa. La sera quando andavamo a trovare mia madre in ospedale le mostravo la foto del tavolo che avevamo spostato in cucina oppure del vicino che aveva tagliato l’albero.

M: Quanti anni avevi?

V: Avevo nove anni e questo mio fotografare per lei andò avanti negli anni. Gli ultimi giorni della malattia all’ospedale hanno deciso di farla tornare a casa per qualche giorno. In salotto avevamo una poltrona di vimini molto grande sulla quale lei si sedette. Io presi la mia macchinetta e l’ho fotografata. Lei mi ha ripreso, dicendo che non si fotografano le persone malate. Presa dalla paura misi via la macchina fotografica e non le scattai più nessuna foto. Pochi giorni dopo venne a mancare e la sera in cui venne a mancare mio padre tornando a casa dall’ospedale aveva in mano quella foto che le scattai sulla poltrona di vimini. Mi da la foto e vedo che lei aveva scritto sul retro La foto è bellissima e tu sei una bravissima fotografa.

M: Questo dolce e profondo aneddoto mi porta immediatamente a chiederti come ti rapporti alla fotografia, quale senti che sia il tuo ruolo, ti senti di più una fotografa, un’artista o una fotoreporter?

V: Una fotografa! Senza alcun dubbio. Artista non mi sento perché non mescolo la mia fotografia con qualcos’altro, non tolgo, non aggiungo. Fotoreporter no, dal momento che non ho di buon occhio proprio tutti i fotoreporter. Durante svariate esperienze ho capito che questa professione non era la cosa più adatta al mio modo di relazionarmi alla fotografia quindi ho pensato che per allontanamento non faccio parte di questa categoria.

M: Parte essenziale del processo creativo di una fotografa è il suo pubblico, ma non tutto il pubblico è per forza formato da fotografi o appassionati. Ti va di descrivere il tuo progetto White Shadow – Under the Mango Tree a mio cugino, che non ne ha mai sentito parlare né tantomeno ha mai sentito parlare di fotografia?

© Valeria Gradizzi

V: Esiste una striscia che taglia l’Africa centrale in cui nascono per motivi di genetica dei bambini albini da coppie di neri. Ovviamente è solo ed esclusivamente una questione genetica ma per la società in cui vivono loro sono figli del demonio. Quindi da vivi portano sfortuna e da morti portano fortuna e valgono un sacco di soldi. Il rene di un bambino albino vale cifre esorbitanti. Sempre secondo le credenze locali, la pozione ottenuta con il fegato di un bambino albino, ad esempio, gli porterà fortuna tutta la vita. I capelli li vendono perché inseriti nelle reti da pesca pescheranno il doppio. Un’altra credenza vuole che se un malato di AIDS ha un rapporto sessuale con una bambina albina si assicura la guarigione. Quindi da vivi loro sono braccati come delle prede sia da chi vuole usarli per riti magici sia da chi vuole venderli.

M: Quindi loro dove sono tenuti al sicuro? Qual è il luogo che vediamo nelle tue fotografie?

V: In Tanzania esistono numerosi luoghi in cui questi bambini vengono tenuti rinchiusi al riparo. Dove sono stata io è una casa in Tanzania gestita da un gruppo di suore che hanno sede a Piacenza. I bambini vivono costantemente sotto una pesante scorta armata, circondati da mura molto alte. Lo scopo di questo centro è di cercare di integrarli gradualmente nella comunità, quindi i ragazzini frequentano comunque le scuole pubbliche, ma accompagnati da queste guardie armate.

© Valeria Gradizzi

M: Al pubblico, ma soprattutto agli aspiranti fotografi che guardano queste tue fotografie e rimangono a bocca aperta, il progetto arriva sempre una volta chiuso e confezionato, ti va di parlarci di quello che succede dietro le quinte di un progetto del genere, come si fa o meglio, come lo fai tu?

V: Io cerco innanzitutto sempre ciò che mi interessa, proprio perché non sono vincolata a nessuno. Una volta individuata la storia che potrebbe interessarmi di più e da lì inizia una lettura infinita di libri che riguardano quell’argomento, quindi moltissima documentazione. Fatto questo cerco di capire chi ha scritto di questa cosa in tempi più recenti e se riesco cerco di contattare questa persona. Contatto le persone che hanno seguito quella storia, ne hanno già parlato o in qualsiasi modo ne hanno avuto a che fare. E poi mi organizzo per la logistica del viaggio, con tutte le considerazioni del caso riguardanti luce, temperatura, meteo ecc. Pianifico la partenza e il ritorno, poi quando sono lì, cerco di vivere con loro.

M: Questa regola l’hai applicata anche con White Shadow?

V: Certo, con quei bambini ci ho dormito un mese, andavo a scuola con loro, mangiavo con loro, mi svegliavo con loro. Faccio così perché devo creare un minimo di empatia altrimenti sarò solo la fotografa e loro qualcun altro. Quindi, tornando al discorso di prima, finché sono lì faccio gli scatti, lavoro, faccio fotografie e poi quando rientro faccio una prima selezione di quelli che ritengo siano gli scatti meglio riusciti. Poi vado da un altro fotografo e scegliamo insieme il resto degli scatti. Poi attacco tutte le miniature in casa alle pareti e per settimane le sposto continuamente.

© Valeria Gradizzi

M: Quando decidi di creare empatia, inevitabilmente crei dei legami importanti con i tuoi soggetti, cosa hai provato poco prima di scattare la prima e poco dopo aver scattato l’ultima fotografia di questo progetto?

V: La prima foto del progetto è stata difficile perché avevo tutta una serie di pensieri legati alla etica, ero in piena crisi. Quando ho scattato la prima foto, quella della bambina che raccoglie le bacche, poco prima di scattare ho pensato che avrei raccontato quelle persone per quello che erano: dei bambini. Quando invece ho scattato l’ultima foto ho pianto tantissimo perché stavo lasciando una famiglia.

M: Condannati purtroppo per natura e poi, come se non bastasse condannati anche dalla società in cui non hanno scelto di nascere, come è stato entrare in contatto con degli esseri umani così fragili? Sei riuscita a mantenere un approccio distaccato o non hai potuto fare a meno di lasciarti trasportare dal senso di base di umanità, solidarietà e dignità?

V: Loro sono bambini e io sono una donna, ci sono delle cose che succedono. Quindi li ho amati, ma da subito. Li svegliavo, li portavo a letto, li vestivo la mattina, li portavo a scuola. In realtà ho giocato un sacco facile. A prescindere da White Shadow, questo è proprio il mio approccio verso i soggetti che fotografo, dal momento che vivo in maniera molto intensa e in prima persona la mia fotografia.

© Valeria Gradizzi

M: Un’altra questione fotografica importante è l’estetica. Il grande valore estetico che si nota in questo progetto (mi si perdoni il poco rispetto nei confronti della tematica se penso al meccanismo retorico bambini neri ma bianchi fotografati in bianco e nero, volontario o involontario che sia) è semplicemente retaggio di esperienze passate che emerge in maniera naturale mentre ti concentri sui contenuti o hai studiato un taglio preciso proprio per questo lavoro?

V: Sicuramente è un retaggio del mio modo di tenermi allenata a guardare. Il bianco e nero io lo uso perché non sono capace di guardare fotograficamente a colori. Oltre la scelta cromatica, scelgo come fotografare una cosa piuttosto che un’altra, utilizzo un’unica focale su tutte le mie macchine (ndr 35mm) che è diventato automaticamente il mio modo di vedere il mondo. In generale comunque avviene tutto in maniera molto naturale, tutto ciò che emerge come taglio estetico è puro retaggio di ciò che vedo e che i miei occhi sono allenati a vedere.

M: Pensi che White Shadows sia un progetto chiuso o ancora vivo e vegeto, pronto a cambiare, ad integrare nuove fotografie o ancora a diventare una pubblicazione? In che stato è?

V: Il progetto non è assolutamente un chiuso. Al momento sto aspettando che i bambini passino una determinata età, dopo la quale verranno spostati da un centro all’altro. Quindi l’idea è di tornare tra qualche anno e concludere un secondo capitolo con loro più grandi e in un altro centro. Questo sarà il naturale proseguimento del progetto. Finché non avrò finito anche questa fase, non ho in programma nessuna pubblicazione.

M: Più o meno tra quanto potrai tornare da loro, quindi?

V: Tra quest’anno e l’anno prossimo (ndr 2019/2020). Sono già passati quattro anni, quindi sto aspettando il quinto e il sesto, perché avevano sei anni e loro vengono spostati quando ne hanno dodici.

© Valeria Gradizzi

M: L’intervista è praticamente finita, vorrei però chiederti di Valeria Gradizzi dopo White Shadows. Hai qualche progetto in mente di cui ci vuoi parlare oltre la continuazione di questo di cui ci hai parlato?

V: Dopo White Shadow ci sono stati altri progetti, come quello sui confini e la crisi siriana. Poi l’altro grosso progetto, a lungo termine, è sul sufismo e sulle donne nel mondo islamico di cui non mi sento di parlare ancora molto.

Quella che ho di fronte è una donna forte, in gamba e con degli occhi che sanno dove e come guardare. Valeria è una di quelle persone che non possono assolutamente fare a meno di essere spudoratamente sincere e questa è una qualità che paga tantissimo nel lavoro del fotografo. La grande vicinanza ai suoi soggetti uniti alla sua grande cultura estetica le permette di confezionare lavori molto importanti che saranno destinati senz’altro a lasciare già da subito un bel segno nella storia della fotografia italiana.

Qui puoi vedere il progetto White Shadow – Under the Mango Tree http://www.valeriagradizzi.com/white_shadow_under_the_mango_tree-p14284

Qui puoi vedere gli altri progetti http://www.valeriagradizzi.com/progetti-p

____________________
Per effettuare una donazione alle suore che si prendono cura dei bambini albini in Tanzania

CC Postale 13345293 intestato a CONGREGAZIONE SUORE DELLA PROVVIDENZA, Via Francesco Torta, 63 – 29121 Piacenza
Bonifico Bancario, IBAN IT18L0200812601000100076862 intestato a CONGREGAZIONE SUORE DELLA PROVVIDENZA, Via Francesco Torta, 63 – 29121 Piacenza

Oppure puoi effettuare una donazione online sul sito http://suoredellaprovvidenza.com

Grazie.

Exit mobile version