Intervista Tamino | “Canto la malinconia come un novello Jeff Buckley”

Nell’intimo spazio da salotto del Gattò di Milano, il 5 settembre, Tamino, nuova leva del cantautorato belga, ha suonato durante uno showcase che ci ha visti commuovere di fronte al suo solo chitarra-voce a lume di candela, vicini come sardine in una scatola e muti in ascolto dello spirito del giovane cantante e della sua voce. Abbiamo avuto occasione di scambiare due chiacchiere con lui prima dello spettacolo e su un tavolino poco illuminato, abbiamo parlato del suo disco, della sua musica e anche della condizione umana, in qualche modo.

Ormai hai fatto live in giro per tutta l’Europa, io credo che la tua musica sia perfetta per uno spazio come quello del Gattò: come giudichi l’atmosfera dello showcase?

Lo showcase è lo spazio ideale per la mia musica perché mi permette un contatto con il pubblico più emotivo e una vicinanza che rende possibile una sorta di connessione con loro.

A proposito di Amir, il tuo nuovo album, l’ho avvertito come un diario, un’autobiografia. Ma, al di là, delle confessioni, possiamo parlare di un messaggio contenuto nel disco?

Non c’è davvero un “grande” messaggio, ma molti piccoli messaggi nascosti nelle tracce dell’album. Una delle cose su cui mi sono interrogato di più è, però, l’origine di questa oscurità, di questa malinconia che provo, una sorta di malinconia che, secondo me, proviamo tutti quanti noi esseri umani. La differenza non si gioca sull’avere o non avere questa oscurità dentro di sé ma sull’atteggiamento che si assume nei suoi confronti: guardarla negli occhi per affrontarla o ignorarla. Ci vuole coraggio per entrambe. Ma penso, anzi sono sicuro che sia meglio per noi, da un punto di vista mentale, affrontarla. Se non lo fai, e la nascondi, può colpirti alle spalle in qualsiasi momento. Quindi, credo sia necessario affrontare il dark side di ognuno di noi per poter vedere la luce.

A proposito di questo sentimento che personalmente condivido ma che, forse, ci accomuna tutti, non credi sia strano essere così giovani e provare già una così forte nostalgia? C’è un’origine di questo male o è qualcosa di innato secondo te?

Penso sia realmente in ognuno di noi. Basta pensare alla tristezza, tutti possiamo dire di averla provata. La malinconia è diversa, è qualcosa di più grande, in un certo senso è anche più affascinante e non è così facile da provare. Io penso che nasca dalla nostra parte più intima, è nella nostra natura. Anche se non sei malinconico, hai sempre questa tendenza a nascondere una tua parte più oscura e spaventosa.

Parli della difficoltà di affrontare di petto i nostri problemi?

Non solo i problemi, ma anche noi stessi. Siamo sempre in fuga dalla nostra parte che ci piace meno ma bisogna abbracciarla per essere positivi.

È una sorta di battaglia tra oscurità e luce dentro di noi.

In realtà è una battaglia solo se la consideri tale. È una battaglia solo se preferisci ignorare una delle parti di te stesso.

Nel tuo album c’è un mood malinconico che emerge da una musica soave e mai invadente, una sorta di poesia cantata, un tipo di musica che credo ti sia arrivata da Jeff Buckley. E, a proposito di questo contrasto tra straziante e dolce, sembra sia simbolico il titolo di una tua traccia, Persephone. Persefone è la moglie del re degli inferi ma quando sale sulla Terra lascia dietro di sé la Primavera. C’è questa ambivalenza nel brano e, in generale nell’album? Il meglio che può venire fuori dal peggio?

Credo che l’interpretazione sia bellissima, oltre che corretta. È esattamente il tema che sta sotto le tracce di questo disco. Persephone è, nella mia idea, la logica conclusione dell’album, per questo è l’ultima traccia, perché spiega. È, forse, la canzone più personale dell’intero disco e si regge sui parallelismi che servono anche a me per nascondermi da me stesso e non espormi, anche se è impossibile farlo. Penso che Persephone sia una canzone che parla di un amore difficile, reso tale dalle difficoltà costitutive dei rapporti. Quando canto “Sono qui per spezzarti il cuore”, non intendo riferirmi a un tradimento ma all’inevitabile fine data dall’incapacità di rimanere sempre se stessi e dalla naturale tendenza a essere più persone incompatibili nello stesso momento, divisi in due con il cuore teso verso più di un obiettivo. È una canzone ricca di dualismo ma tutto l’album lo è. Trovare il bilanciamento tra opposti è il tema: luce, oscurità, leggero e pesante, romanticismo e nichilismo.

Parlando del tuo stile musicale, ho letto che quando eri più giovane suonavi in una band punk. Ora, dopo pochi anni, sei passato a un genere che possiamo definire opposto: intimo e riflessivo. Come mai questa scelta?

Non è stata una scelta, in realtà. Quando ero più giovane ero furioso con il mondo, pieno di rabbia e il modo migliore per esprimere ciò che provavo passava dal pedale della distorsione. Ora ho nuove cose da dire che non potevano più essere accompagnate dalla furia del punk e la musica è gradualmente cambiata e si è spostata verso questo genere che faccio adesso.

E credi che sia questa la tua dimensione musicale?

Solo ora. Ma non so domani.

A L’Indiependente ogni mese curiamo una cover story, e quella di questo mese riguarda le Migrazioni e i suoi risvolti artistici e sociali. Credo che tu in qualche modo sia un rappresentante, a livello musicale, di ciò che l’unione di influenze culturali è in grado di far nascere: metà belga e metà egiziano, non rinunci alle tue origini da un punto di vista stilistico e l’orchestra che ti ha accompagnato in tour formata da rifugiati politici di Paesi lontani da te. Come giudichi l’apporto delle varie culture per la tua musica?

Assolutamente importante. Sono fedele alle mie origini ed emergono in ogni mia composizione ma non di proposito. Mentre scrivo i testi e compongo non penso a far emergere nulla di tutto questo. Quando però riascolto i brani mi rendo conto che c’è uno stile che è per me naturale e che nasce dall’Egitto e dall’Europa. Anche il modo in cui canto sembra ammiccare all’arabo ma, per me è sempre stato naturale cantare così, non ho mai pensato di cambiare. Per quanto riguarda l’orchestra, ho visto un loro video ed ero stupito dalla loro qualità musicale. Non sapevo neppure fossero rifugiati. In realtà, loro mi chiesero di suonare in un brano del loro album, ma non me la sono sentita. Così ho rilanciato la domanda chiedendo loro se volessero suonare con me. Quattro di loro sono rifugiati di guerra. È qualcosa di incredibile perché ti chiedi dove trovino la forza di continuare a suonare, e così bene, nonostante tutto quello che hanno passato. Erano musicisti molto famosi nel loro Paese e a un certo punto crack, carriera distrutta. Non lo sapevo quindi non posso dire che sia stato un atto politico ma è stato bellissimo, un meraviglioso extra. Probabilmente, per loro la musica è l’unico mezzo per comunicare qualcosa delle loro origini.

Per le influenze e la diversità delle origini dei componenti, mi è sembrato di rivivere la musica dei Junun di Johnny Greenwood, un musicista sempre attento alla sperimentazione. Un po’ come il fratello Colin con cui tu hai collaborato.

È stato incredibile lavorare con lui. Non è solo un grande musicista ma anche una persona fantastica e gentile. I Radiohead sono decisamente una delle mie influenze. È incredibile come si siano riusciti a trovare cinque ragazzi così. Un match pazzesco in cui ognuno è davvero essenziale.

C’è una tua traccia dell’album che preferisci?

Probabilmente Persephone, ora come ora. Domani non so, probabilmente un’altra. Sun May Shine è un’altra canzone che adoro. Non so perché, probabilmente è ben bilanciata, per riprendere ciò che dicevamo prima. Elettronica e acustica si fondono bene con la mia voce.

Per concludere, ci spieghi il motivo per cui hai chiamato l’album proprio con il tuo secondo nome, Amir?

Amir è il mio secondo nome. Mio padre ha pensato fosse importante darmi un nome arabo. Tutto l’album è molto intimo e ogni cosa raccontata sgorga da me e da cose legate a me. Ho pensato che l’album dovesse anche rispecchiare questo legame con la mia persona. Rientra nell’autobiografia. Inoltre Amir vuol dire “principe” e la condizione del principe rispecchia un po’ quella di cui parlo nell’album. È una condizione esistenziale che non svegli ma in cui ti trovi. Nessuno si impegna per nascere principe. Ci nasci. Allo stesso modo, io sono nato per la musica. Sebbene continui a studiarla, sono sempre stato immerso in essa da quando sono piccolo.


Amir è in uscita il prossimo 19 Ottobre

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