The Good, The Bad & The Queen – Merrie Land

Damon Albarn è irrecuperabile. Capita a quei musicisti e artisti che riescono a perdersi letteralmente nel proprio talento creativo: si fanno possedere come da un furore, non c’è altra salvezza che comporre. E allora non stupisce questo continuo consumarsi di Albarn dentro la musica. In particolare negli ultimi anni sembra non essersi mai fermato: ha celebrato i Blur con grandi tour e un nuovo album, è tornato con due dischi a firma Gorillaz nel giro di un anno solare, ha buttato fuori persino album in solo come compendio del suo talento più vivo (nel 2014 Everyday Robots fu una speciale apparizione), e ora fa risorgere persino i The Good, The Bad and The Queen dopo undici anni di silenzio. L’occasione è di quelle insolite: la Brexit. Camminando per le strade della sua terra, e respirando un odore acre e malsano, Albarn avrà sentito il bisogno di raccontare questa scucitura eccezionale che domina l’aria del Regno Unito negli ultimi tempi. Così nasce Merrie Land, come una nuova terra da narrare in cui torneranno i mostri spaesati – e scomposti – d’altri tempi. Scomodiamo i Beatles per questa immersione dentro un autentico spirito britannico, andiamo a pescare dentro un intero mondo di suoni e immaginari, raccontiamo questa viscerale tristezza post-moderna dell’uomo più contemporaneo possibile, quello che cammina sulle rovine dell’antichità. C’è un sapore antico in Merrie Land, fatto di distacco, amarezze e separazioni. Parliamo della separazione più irrecuperabile di tutte: quella dalla propria terra, e della propria terra dal resto del mondo. Il sentimento da isolani stavolta vince, non c’è più neanche il bastardo colonialismo che mantiene a contatto con il mondo.

If you’re leaving can you please say goodbye?
And if you are leaving can you leave your number?

È ingiusto il sapore di una separazione non voluta, in qualche modo ci si sente sempre colpevoli. In una recente intervista Albarn ha ribadito qualcosa del genere: nonostante non abbia votato – né in alcun modo sostenuto – il fronte del Leave, un sottile sentimento di colpevolezza va a prenderlo di tanto in tanto. Per quello che non ha fatto, per l’arrendevolezza a cui si è piegato. Forse è una sensazione universale umana negli ultimi tempi: siamo sicuri di aver fatto abbastanza per evitare la solitudine al singolare che ci circonda al punto da farci sentire estremamente emotivi, preda dei cattivi sentimenti, della rabbia e della chiusura? Il testo di Merrie Land (title-track del disco) a una prima lettura svagata potrebbe sembrare una canzone d’amore, e in effetti lo è: si tratta però di un amore per la terra, di una dedica accorata a quella terra da cui ci si sente separati. Una sensazione strana, perché in effetti il Regno Unito non ha mai lasciato i suoi cittadini, e Albarn non sta certo salutando l’Inghilterra da una nave in partenza. Il messaggio è rivolto a quei cittadini che si sentono stranieri nella propria terra. E allora quella title-track apparirà straziante immersa com’è in una solitudine irriconoscibile e distintiva.

Damon Albarn, Paul Simonon, Simon Tong e Tony Allen sono straordinari nel cucire nelle orecchie dell’ascoltatore una certa atmosfera: persino nelle scordature di Lady Boston è nascosto uno strazio disordinato, e ancora nell’orecchiabile Drifters & Trawlers si riconosce il verso a certi successi dei Sixties che vengono diritti a dirci, hey quella magia può essere ancora possibile. Cullati dalle chitarre di Ribbons ci sentiamo comodamente al rifugio da ogni genere di ansia: una ballata in stile Albarn, con effetto sospensione dai tempi. Ha l’aria di una giocoso quanto tragico musical invece The Last Man To Leave, che ripete ossessivamente il mantra “I’ll be the last man to leave”, e ci fa immaginare in un colpo d’occhio la vita di quest’uomo che non vuole proprio andarsene.

Siamo 65 mila cittadini britannici residenti in Italia. Se il governo italiano o la Ue non fanno niente prima del prossimo 29 marzo per regolarizzare la nostra posizione, il 30 marzo diventeremo immigrati illegali con gravi conseguenze immediate” — è il cuore di un appello scritto dai britannici che risiedono in Italia, preoccupati da quel che accadrà. Se n’erano andati senza poter immaginare che un giorno si sarebbe tornati indietro verso un mondo di frontiera, non avevano avuto il sentore del grave malcontento generale che attraversava il cuore degli esseri umani prima di trovarsi di fronte all’espressione della volontà popolare. Sono tempi strani, in cui ci si potrebbe rifiutare e disertare la volontà popolare per diventare The Last Man To Leave. Sono tempi in cui non si può evitare un dolce rifiuto anti-democratico per sopravvivere. Merrie Land ha il pregio di provare a raccontare la condizione umana e contemporanea di stranieri e disertori che nessuno ci sta ancora raccontando. Lo fa al ritmo viscerale di una vecchia cara Inghilterra, dal sapore sognante e nostalgico. Con canzoni d’amore come The Poison Tree che sanno di addii disperati a una terra promessa, che forse non è mai esistita, ma il cui sogno sembra irrimediabilmente infranto. “Ti vedrò in un’altra vita”, canta Albarn. Ma è davvero così tanto il tempo che ci separa dal mondo?

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