“Così mi sono perso tra i vulcani d’Islanda” | Intervista a Leonardo Piccione

Il festival della cultura nord-europea I Boreali vi aspetta questa settimana a Milano dal 21 al 24 Febbraio. Tra incontri, eventi, concerti e brunch scandinavi, il festival nato da un’idea della casa editrice Iperborea promette una vera e propria immersione nel Nord Europa. Tra gli ospiti di questa edizione ci sarà Leonardo Piccione, autore de Il libro dei vulcani d’Islanda, uscito a Gennaio per Iperborea — un libro per esploratori, un’edizione curata fino ai minimi dettagli e di cui è possibile innamorarsi perdutamente.

Nell’attesa del festival abbiamo fatto qualche domanda a Piccione, e lui ci ha raccontato come sia meraviglioso perdersi tra i vulcani d’Islanda.


Il libro dei vulcani d’Islanda inizia così: “L’Islanda è una malattia”. Dunque, è cominciato tutto da una malattia di Islanda? Com’è nato questo rapporto con l’isola?

Per semplicità sono solito rispondere a questa domanda spiegando che risale tutto agli anni del liceo, al fatto che nel giro di pochi mesi l’Islanda mi si manifestò sotto forma di tre materie scolastiche molto diverse tra loro: letteratura italiana, con Il dialogo della natura e di un islandese di Leopardi; scienze della terra, con – ça va sans dire – il vulcanismo; e fisica, con il magnetismo terrestre – che è all’origine del fenomeno delle aurore boreali. Così decisi di unire i puntini e incentrai la tesina degli esami di stato sull’Islanda, che fino ad allora era un luogo di cui conoscevo a malapena l’esistenza. Quando qualche tempo dopo la visitai di persona per la prima volta, compresi che forse c’era un’attrazione più profonda tra quella terra e il sottoscritto. Da allora ho cominciato a tornarci con frequenza crescente, e a sperimentare una sorta di crisi di astinenza nei periodi trascorsi lontano dall’isola.

E invece come ti è venuta l’idea di mettere insieme questo meraviglioso zibaldone di storie islandesi ispirato ai suoi vulcani?

Perché credo che ci siano proprio i vulcani all’origine di quell’attrazione che dicevo. A un certo punto, dopo l’ennesimo viaggio in Islanda, mi sono trovato nella condizione di dover giustificare a parenti e amici il mio continuo andare verso il Nord – io che vengo da un profondo Sud. Allora mi sono messo a scrivere, a elencare i motivi per cui continuavo a prendere aerei per Reykjavík: le cose che avevo voglia di rivedere, le storie che speravo di approfondire. Bene, mi sono reso conto che gran parte degli spunti che avevo raccolto avevano in qualche modo a che fare con l’attesa, con la tendenza molto islandese di vivere in uno stato di costante sospensione. Aspettare la prossima tempesta, o il ritorno del sole dopo settimane; aspettare l’inverno, poi di nuovo l’estate. Aspettare, soprattutto, la prossima eruzione vulcanica. E, insomma, noi umani abbiamo un legame particolare con l’attesa, no? Dino Buzzati ha scritto in uno dei suoi Sessanta racconti che «l’attesa rappresenta probabilmente l’unica forma di felicità concessa all’uomo.» Ecco, le storie dei vulcani sono soprattutto storie di attesa, celebrazioni della speranza e insieme del timore che ogni cambiamento porta con sé. La nuova isola emersa dal mare, il nuovo campo di lava a cui dare un nome. Ma anche il prossimo viaggio, la ricerca di forme di vita extraterrestri, un nuovo amore. Tutto è attesa.

Hverfjall – Foto di Leonardo Piccione

Un aspetto che ci ha colpito molto è la tua penna da narratore, non è una cosa scontata per un libro che gioca facile nell’intrigare il viaggiatore, l’appassionato o il semplice collezionista. Leggerti è un vero piacere, ci accompagni in queste 47 storie con un ritmo letterario autentico. Come hai unito una formazione più scientifica a questa vocazione letteraria?

Grazie per il complimento! Mi fa piacere, soprattutto perché sono stato a lungo convinto – in parte lo sono ancora – che questa doppia anima sia più che altro un difetto, una particolare forma di indecisione. Ho avuto a che fare per anni con i numeri (ho completato un dottorato in Scienze statistiche tre anni fa) pur sapendo che erano le parole a sedurmi di più. Questa dualità mi ha segnato e messo in crisi, però scrivendo questo libro ho realizzato che le due vocazioni non sono necessariamente in contraddizione. Anzi, ritengo che la curiosità e il metodo – che sono prerogative della ricerca scientifica – possano tornare molto utili anche quando si prova a fare narrativa.

Quale storia ti sei divertito a scrivere di più?

Senza dubbio quella di Jørgen Jørgensen, l’avventuriero danese che a inizio Ottocento si autoproclamò re d’Islanda per due mesi. Giocatore d’azzardo, politico, navigatore, spia internazionale, mercante, galeotto, scrittore, infermiere e confessore, è stato definito «una delle più curiose meteore della storia umana.» Ho scoperto la sua storia quando ero già a buon punto con il resto del libro, altrimenti non escludo che avrei potuto lasciar perdere i vulcani e dedicarmi esclusivamente delle sue peripezie.

Il sottotitolo del libro è: Storie di uomini, fuoco e caducità. E proprio la caducità emerge sempre dentro questo storie, la perenne minaccia sotto cui vive il popolo islandese. Dall’idea che ti sei fatto l’islandese è più portato ad accettare semplicemente di vivere sotto il peso di queste intemperie, oppure c’è un sentimento di sfida nei confronti della natura?

Gli islandesi hanno un rapporto bifronte con la natura. Da una parte non riescono a nascondere la propria soddisfazione – in certi casi sembra quasi tracotanza – per essere riusciti a domare l’apparentemente indomabile creato islandese. Teniamo presente che in seguito all’eruzione del Laki del 1783, che uccise un terzo della popolazione dell’isola, gli islandesi erano considerati un popolo a rischio di estinzione, tanto che la Corona danese pensò di evacuare completamente l’isola. Invece loro rimasero. Hanno superato decenni di povertà e sofferenze e oggi sono una delle nazioni più benestanti del mondo. In certi modi di fare questa consapevolezza è lampante: “Se siamo riusciti a sopravvivere su quest’isola inospitale, cosa potrà mai fermarci?”, pensano gli islandesi, che – anche a causa di questa convinzione – in certe decisioni non brillano affatto per lungimiranza. La società islandese non è idilliaca come può apparire dall’esterno. Per esempio oggi ha un problema molto serio con lo sfruttamento delle risorse naturali, nel Paese si discute sul come e quanto sia giusto spremere la terra per sfruttarne l’intrinseca energia fino all’ultimo watt. Dall’altro lato, tuttavia, permane insopprimibile negli islandesi il timore che il benessere conquistato non sia definitivo. Che quella vinta contro la natura non sia la guerra ma una battaglia: domattina il vulcano Katla potrebbe eruttare e rendere l’isola inabitabile per decenni, gli islandesi lo sanno.

Oltre alla ricca produzione letteraria, l’Islanda coltiva una tradizione musicale feconda. Viene subito da pensare a due nomi importanti come quelli di Björk o i Sigur Rós, progetti che tra l’altro hanno conquistato un respiro internazionale. Questo successo da cosa dipende?, una lingua musicale?

A me piace molto ascoltare l’islandese, e prima o poi lo imparerò. Nonostante l’asprezza di certi suoni (basti dire che la c non esiste, rimpiazzata sempre e comunque dalla k), trovo che la lingua abbia un bel ritmo, scandito da quest’accento sulla prima sillaba di ogni parola (in Islanda io sono Lèonardo, non Leonàrdo). Il successo dei musicisti islandesi però penso che più che alla musicalità della lingua sia collegato alla peculiare e diffusa sensibilità artistica di questo popolo, alla capacità che hanno le storie concepite su quest’isola di acquisire un respiro universale. Proprio come i vulcani della loro terra, gli scrittori e i musicisti islandesi sono in grado di produrre effetti anche lontano dal luogo natio dell’ispirazione. E non certo da oggi, visto che già le saghe medievali sono piene di guerrieri spietatissimi che però compongono anche raffinate poesie. È davvero incredibile la proporzione di islandesi che si dedicano a una qualche forma d’arte. Saranno le lunghe notti invernali, o la mancanza di alternative, o gli stimoli che vengono dalla natura. O magari una somma di tutto questo. Fatto sta che in Islanda si scrive e si suona tantissimo. Per dirne una, il mio coetaneo che a Húsavík ha vissuto prima di me nella camera con vista baia dove io poi avrei messo insieme un buon numero di storie di vulcani, e che nella vita fa tutt’altro, è appena uscito con un disco stupendo. Si chiama Fæ Ör, l’ho inserito nella playlist che raccoglie 21 brani musicali legati in qualche modo al Libro dei vulcani.

Davanti al Þeistareykir

Il lavoro che avete fatto per l’edizione del libro è eccezionale, tutte quelle mappe illustrate ne fanno un oggetto bello, e una bussola all’orientamento da portare in viaggio. Ci racconti le tappe che hanno spinto in questa direzione te, Iperborea, e lo studio xxy?

Dal primo momento ho immaginato quello che sarebbe diventato il Libro dei vulcani d’Islanda come un oggetto piacevole da sfogliare e da guardare – oltre che da leggere, se possibile. Non pensavo a fotografie (ci sono un sacco di bei libri fotografici sull’Islanda) e nemmeno a disegni (ci sono un sacco di bei libri illustrati sull’Islanda). A me piaceva l’idea di mascherare l’anima letteraria del libro dietro un’apparenza quasi da manuale scientifico. Occorreva qualcosa che io non avevo ben chiaro in mente, ma i creativi di xxystudio evidentemente sì: hanno preso le mappe altimetriche di ciascun vulcano e le hanno trasformate in 47 piccole opere di arte astratta che poi la casa editrice – per valorizzarle al massimo – ha stampato su pagine di un formato diverso dal solito. Ci siamo sentiti molto, ci siamo consigliati a vicenda. Il risultato finale è frutto dell’intesa che si è creata tra le parti: avevamo tutti voglia di tirare fuori una cosa bella. Non era scontato che succedesse, ma se c’è Iperborea di mezzo credo che poche cose siano impossibili.

E tutte le citazioni estratte sui 47 vulcani le hai collezionate tu stesso?

Sì, e insieme alla preparazione delle schede scientifiche (nella quale mi hanno dato una mano Sara Barsotti e Mauro Scattolin, una vulcanologa e un geologo) è stata una delle fasi della lavorazione che mi ha impegnato di più. Ho letto un bel po’ di libri e antologie dedicate all’Islanda. Perché di quest’isola è stato scritto tantissimo, e io desideravo che il libro tenesse in qualche modo conto di questo patrimonio pregresso senza però correre il rischio di ripetere cose già scritte. Alcune vicende sono più note di altre, certo, non sono il primo a raccontarle: in quei casi ho tentato di proporle da un punto di vista diverso. Tutto ciò ha richiesto tempo, ma – sai – in inverno in Islanda di tempo ce n’è. L’inverno è veramente una stagione speciale, quassù. Pensa che fino a qualche decennio fa era fatto divieto agli stranieri che non parlassero l’islandese di rimanere sull’isola oltre il mese di settembre… Adesso per fortuna non è più così, e nel corso di tre inverni di ore da dedicare al libro ne ho avute a sufficienza.

Ora ci piacerebbe ci dicessi qual è il vulcano più impressionante che hai visto in Islanda.

L’Askja, che si trova sugli altipiani interni, a tre-quattro ore dalla civiltà. Tre-quattro ore non di asfalto, eh, ma di questa traccia segnata tra grossi massi scuri che è difficile anche solo definire strada. È percorribile esclusivamente a bordo di jeep attrezzate, e solo d’estate – ma anche in pieno agosto non si può escludere di imbattersi in una tempesta di neve. Non è finita. Una volta giunti al rifugio, unico avamposto vagamente umano in un deserto di nulla, c’è da camminare mezz’ora dentro un campo di lava prima di accedere al vulcano. Dopodiché, però, la vista ripaga tutto: la caldera è colma d’acqua azzurrissima, uno specchio che sembrerebbe sottile quanto una lama e che invece è il secondo lago più profondo d’Islanda. E il vulcano è quella cosa là. Non un cono, non una montagna imponente, ma una gemma liquida racchiusa tra pareti di roccia.

Come italiani condividiamo questo senso di precarietà della terra con l’Islanda. Oltre questo c’è qualcosa che abbiamo in comune o ci avvicina?

Credo che noi italiani come gli islandesi non siamo molto bravi a immaginare il lungo termine. Spesso e volentieri viviamo alla giornata. Ci poniamo orizzonti limitati e cambiamo idea in fretta, su tutto. La nostra politica e la nostra economia sono assolutamente imprevedibili, e così è anche in Islanda. Credo, come dici tu, che sia qualcosa che abbia a che fare con la precarietà della terra, non è un caso che Islanda e Italia siano (insieme alla Grecia) i paesi geologicamente più attivi del continente. C’è poi una somiglianza anche dal punto di vista caratteriale: abbattuta – non senza fatica – la corazza di ritrosia che i secoli di isolamento gli hanno costruito all’esterno, gli islandesi rivelano un’indole sorprendentemente affabile e calorosa, molto poco scandinava per certi versi. Come ha scritto una volta Halldór Laxness (il primo e finora unico Nobel per la letteratura islandese), “gli islandesi sono gente poco ospitale nelle saghe antiche, ma le cose sono migliorate molto dopo la scoperta del caffè.”

Per concludere, hai in mente qualche altro progetto di scrittura?

“Progetto” è una parola veramente impegnativa. Mi limito a dire che in questo momento è più probabile che io continui a scrivere piuttosto che torni a fare il ricercatore. Sono appena tre anni che scrivo con una certa continuità, d’altra parte: mi piacerebbe insistere un altro po’, migliorare. Magari cimentarmi con storie più lunghe, anche se non è affatto detto che sia in grado. Di certo vorrei scrivere ancora di ciclismo, la mia prima vera palestra di scrittura. E poi magari di nuovo di vulcani, chissà. Ci sono quelli della Kamchatka che sono una meraviglia…


Ascolta Il libro (sonoro) dei vulcani d’Islanda, la playlist a cura di Leonardo Piccione

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