Mac Miller e la fragilità di Circles

Mac-miller-circles

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In un immaginario hip hop di superuomini, Mac Miller rappresenta una variabile insolita, pur avendo condiviso con alcuni dei suoi esponenti una tragica fine. L’evoluzione di Circles è parte di un processo di transizione che fonde il rap e l’indie lo-fi, già emerso nel precedente Swimming, e ha il grande pregio di andare al di là delle copertine, dietro le quinte di un circo che tende a nascondere insicurezze e paure. Oltre all’inchiostro dei tatuaggi, alla pesantezza delle catene e le macchine sportive, Mac Miller mostra le difficoltà di fare i conti con se stessi, dello scontro quotidiano con le proprie paure e il baratro della depressione. Cerchi, appunto, ma concentrici, calcati fino a bucare il foglio e a descrivere la parabola di un’esistenza intera in cui tutto porta ostinatamente alla musica. Un’eredità – per forza di cose – che ci dice che fragilità, paure e insicurezze vanno bene, anche in un mondo iperconnesso in cui perdersi è molto facile e rimanere integri è la più dura delle sfide.

And I cannot be changed, I cannot be changed, no
Trust me I’ve tried
I just end up right at the start of the line
Drawing circles

Circles, nonostante le condizioni imprevedibili in cui è uscito, non è un disco rapito dal buio. Non lo è, almeno, totalmente. È, anzi, il risvolto maturo delle difficoltà esposte sottilmente nell’album precedente Swimming (And I got neighbors, they’re more like strangers / We could be friends / I just need a way out of my head / I’ll do anything for a way out / Of my head – apre in Come Back to Earth), forse ne è addirittura la soluzione cosciente, la rappresentazione della necessità di trovare uno spazio in cui poter respirare emotivamente e aprire una discussione con i propri ascoltatori, aiutandosi con toni più rilassati che costeggiano il chillout per farci capire che, in fondo, tutto può essere superato. Un Surf emotivo, su e giù dalle grandi onde, che anche nei momenti di maggiore criticità e pathos non abbandona un clima disteso, anche quando le autoaccuse di That’s on Me non sembrano lasciare scampo (We’ll take the stairs that gets us into there / It’s unfair when I’m being too proud, but / That’s on me, that’s on me, I know).

La transizione dal rap si condensa in maniera naturale e, paradossalmente, nella reinterpretazione del brano Everybody (Gotta Live) che, alle influenze psichedeliche dei Love, predilige l’impatto del piano minimale e il contrasto con cui il tono malinconico della voce di Miller ne approfondisce la struttura. Il pregio di tutte le grandi cover, del resto, da All Along the Watchover di Dylan e Hendrix fino a Where Did You Sleep Last Night? (Leadbelly/Nirvana), è quello di dare un tono completamente diverso, di aggiungere, cioè, una musicalità e un significato non solo diverso ma arricchito dalla propria storia personale. Così accade in Everybody, nelle note cadenzate e nella sua voce a tratti rauca e spezzata, che conferma l’atipicità di Mac Miller, per background e storia, nel mondo del rap. Così imperfetto e confuso da adattarsi non solo su più generi ma di arricchirli con la propria diversità. Questo non vuol dire che Circles abbandoni il suo mondo di origine ma che viene rielaborato in una forma d’arte ancora più complessa, evolvendo il rap in una sorta di songwriting a rime sciolte che grondano di emotività e strutture alternative che si riproducono in Good News, in cui il disincanto, matrice descrittiva di tutto l’album, non si limita a una resa o una richiesta di salvezza. Si emancipa dai tratti decadenti di Everybody, li esalta fino a quasi rinchiudere tutto il resto fuori. Allo stesso modo nel ritmo di Blue World, il suo ingresso scanzonato, si dirigono esattamente dove Swimming si era interrotto. Sono una pausa necessaria che non si illude né si arrende davanti all’irrimediabile, scava alla ricerca dei buoni – e piccoli – motivi per uscirne.

 

 

La richiesta emotiva che ci dà Circles di Mac Miller, pur condizionata dall’essere un album postumo, è determinante nella sua comprensione. Circles non può, e non deve, essere un disco come gli altri ma ci dà la possibilità di entrare in una sfera personale spesso chiusa e nascosta di questo mondo complesso. Di farlo con chiarezza, senza nascondersi o limitarsi a un solo genere, alla trasmissione di un solo sentimento o di un determinato tipo di ricezione. Un capitolo finale che riscopre il valore dell’imperfezione e del transitorio, rinchiusa nella matrice che rende lo stile di Mac Miller uno splendido esercizio di sincerità.

Yeah, why don’t you wake up from your bad dreams?
When’s the last time you took a little time for yourself?
There’s no reason to be so down
Rather fly around like there’s no ground

 

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