Una parabola cruda | Leviathan di Andrei Zvjangincev

Leviathan è il quarto lungometraggio del regista russo Andrei Zvjagincev (vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2003 con il suo film d’esordio Il ritorno) e tenta di rispondere a una domanda universale: fino a che punto può spingersi un uomo messo alle strette dal potere annichilente di chi ha il diritto di dettare le regole della società? L’azione si svolge a Pribrezhny, una fittizia cittadina rurale affacciata sul Mare di Barents. Qui abitano Kolja (Aleksey Serebryakov) con la sua famiglia, i quali sono presi di mira dal meschino sindaco del paese Vadim (Roman Madyanov), intenzionato a impossessarsi del loro terreno per scopi immobiliari. Kolja però non è ben disposto a cedere al potere tutto ciò che possiede, e unisce le forze con l’amico avvocato Dimitri (Vladimir Vdovichenkov) per avere ragione sul sistema corrotto che da anni tiene sotto scacco l’intera cittadina.

La chiave di lettura più ovvia che si può rintracciare in Leviathan è naturalmente quella del ritratto di una Russia risorta dalle ceneri del comunismo, in cui i nuovi detentori del potere si consacrano al profitto personale calpestando i diritti dei sottoposti; ma il concetto di lotta sociale viene rielaborato dai Zvjagincev come una parabola cruda che si riallaggia al mito biblico di Giobbe e della punizione del “giusto”. L’amplesso tra i punti cardinali della civiltà (Stato e Chiesa) ha portato al concepimento di un leviatano, un abominio di corruzione dal volto mostruoso che stronca alla nascita qualunque tentativo di ribellione; chiunque ambisca alla rivendicazione degli ideali di giustizia non potrà far altro che lasciarsi fare a brandelli, denudato dei beni terreni e condannato alla disfatta.

Tutto si svolge in un paesaggio di inquietante desolazione. Gli esemplari campi lunghi iniziali dalle cupe tonalità tendenti al blu che catturano le spiagge disseminate di carcasse di balene e imbarcazioni introducono a una dimensione di plumbea sacralità, ponendo lo spettatore di fronte alla consapevolezza che il racconto non concederà sconti o facili soluzioni. La storia procede con incedere lento ma potente, rivelando tutte le impurità di esseri umani la cui convinzione di invincibilità serve a sopperire a insicurezze e ingenuità. Kolja è la perfetta esemplificazione di questa impotenza tipica di chi non ha gli strumenti per farsi valere, e un ruolo fondamentale è pure svolto dai fiumi di vodka da lui versati, insieme fuga dal tormento e veleno per l’anima, dispensatrice di destini fatali.

Leviathan è un film di bellezza ruvida, una tragedia che si ripete ciclicamente in ogni ambito storico o geografico, debitore sia di Tarkovskij che di Kubrick. Malgrado gli evidenti rifacimenti biblici, Zvjangincev evita di calcare la mano sul simbolismo per ancorarsi all’autenticità di uno spaccato sull’alienante passività contemporanea che priva la prospettiva di sopravvivenza di tutte le sue certezze etiche. La crudeltà dell’epilogo è il sunto di tutta l’anima filosofica di un film che inno ai caduti di questa battaglia esistenziale erosa dal fluire del tempo e dall’incapacità di comunicare tra esseri umani.

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