La scrittura come atto d’amore | Gli scheletri di Giovanna Rivero

Così aveva fatto il mare con loro. Li aveva distrutti senza rinunciare nemmeno per un secondo alla sua pura e bestiale bellezza, alle creste di gloria che l’acqua innalzava con una costanza inconcepibile per un essere umano.

C’è qualcosa che spaventa e lega nella deriva miserevole dell’animo umano. Una tensione costante che marcisce i propri ideali, le proprie speranze, perfino l’amor proprio tra corde sporche di salsedine, molluschi putrescenti, il ritmare cadenzato e costante – e per questo inutile e malvagio – della risacca del mare. Ovunque c’è vita – ovunque la vita nasca – già contiene dentro sé il seme cattivo e atroce del male, l’unico specchio terribile e grandissimo su cui misurare l’altezza spaventosa della propria caduta.

Ma è proprio attraverso lo spettro o il ricordo di una caduta che il racconto di ogni vita diventa unico e irripetibile e – soprattutto – vero. Lo sa bene Giovanna Rivero, una delle più importanti scrittrici boliviane contemporanee, che la casa editrice gran vía ha portato in Italia attraverso una raccolta inedita dei suoi racconti dal titolo – bellissimo, va detto – di Ricomporre amorevoli scheletri.

Quindici racconti – scelti dalla sua produzione e affidati ad altrettanti traduttori che hanno frequentato il laboratorio “Tradurre la narrativa breve”, organizzato dalla stessa gran vía e diretto da Matteo Lefèvre, cui si deve anche la selezione dei racconti e la revisione delle traduzioni – che restituiscono, nella pluralità delle voci e nell’unione dei temi, un affresco affascinante e intensissimo della narrativa così peculiare della scrittrice nata a Montero nel 1972.

Il nostro delitto, il mio delitto, consisteva tutt’al più in una soggettività sfrenata che ormai non riusciva più a bloccare con fermezza la diga delle pulsioni

Il filo che tiene insieme tutti i racconti passa per le stesse parole dell’autrice che insiste in maniera quasi ossessiva su alcuni temi, e lo fa attraverso una descrizione immaginifica delle passioni – spesso negative e sopraffacenti – che animano le vite dei protagonisti, i ricordi del passato, i tormenti di percorsi deragliati che sono stati spezzati o sono lì, nel punto esatto del limitare di una frattura.

Così il desiderio è ammantato da un’ostinata ferocia, l’orrore è abbagliante, l’angoscia è secolare e viscosa, l’etica è selvaggia, il tempo si può perdere come un cane randagio, tutto quello che succede è affinato fino ad assumere la fantastica schiavitù dei vizi, le domande sono dolenti, le paure immani, il cielo insanguinato, il ronzio è fisico come l’agopuntura di un sadico.

Giovanna Rivero ci conduce con mano salda nei meandri angoscianti delle fragilità: l’assillante ricerca della maternità ne L’uomo della gabbia, il tema della follia – che preserva dalla violenza della vita – che attraversa prepotente I due nomi di Saulo e Margarita, il racconto distopico di Passò come uno spirito e Ritorno, il cannibalismo nobile e languido di Yucu, lo stupro religioso de La mansuetudine.

La ragazza si fa un taglio sulla coscia destra, prende l’uomo per gli aculei e lo avvicina. L’uomo non ride più, né singhiozza. Forse era proprio questo che stava aspettando. […] Le cosce della ragazza hanno già qualche vecchio taglio. Ci sono cicatrici di tagli anche vicino al petto, come se, man mano che Fabio la copriva con il suo sguardo, una nuova ragazza, quella vera, quella sporca, stesse sostituendo quella che era salita all’inizio sulla Ford gialla con la sua minigonna di cotone.

Su tutti si ergono, scintillanti, tre racconti. I primi due sono entrambi ambientati – nonostante la Bolivia non abbia alcuno sbocco sull’oceano – lungo il mare. Dentro è la storia di un adolescente, Fabio, che si ritrova a dover fronteggiare la gravidanza di una ragazzina in odore di psichedelia, Yoko. La ricerca del denaro per l’aborto diventa, così, la costruzione di un breve quanto intenso percorso di formazione che lo porterà a contatto con dolori immersi – e dipinti con tempere dense – in un paesaggio sempre più plumbeo come le nuvole tropicali che, distese sull’orizzonte del mare, non lasciano che lo scampo di una minaccia costante.

Perciò immaginavo che l’umanità intera spalancasse un’enorme bocca e che la sua gola scagliasse fuori l’oblio come un vulcano di lava acida.

Pesce, tartaruga, avvoltoioRicomporre amorevoli scheletri è attraversato da una ferinità viscida, sghemba e violenta – è un racconto enorme che, come ogni storia che mescola il mare con l’orrore della morte e del cannibalismo, evoca la grandezza dietro La zattera della Medusa di Géricault. La storia del vecchio marinaio Amador e del giovane Elias è rievocazione – delle notti di gelo e dei giorni a bruciare sotto il sole – nelle quinte drammatiche di una casa ricca di ombre, fino alla terribile rivelazione finale che – sospesa per le pagine del racconto – si abbatte sui protagonisti più come una liberazione che come una condanna.

Essere boliviani è una malattia mentale […] mi bevevo di nascosto un sorsetto del vino della damigiana più grande, non soltanto perché qualcosa si scaldasse dentro di me, ma anche per disinfettare qualunque cosa si stesse annidando lì dentro, nello stesso posto in cui crescevano le mie immani paure.

Ma è prima della chiusura con il picaresco e hollywoodiano Viaggio a Broadway, che il volume regala “il” racconto del libro: Pelle d’asino è – ancora una volta – una rievocazione che affonda i suoi turbamenti, i propri traumi nella famiglia, nella memoria, in una frattura da ricomporre. Il racconto – che parte lentamente per poi crescere d’intensità pagina dopo pagina – è quello di una diaspora: due fratelli, Daniel e Nadine sono catapultati, dopo la morte della madre in Canada, a contatto con i metis e con una radice d’appartenenza che non sa più dove crescere. Una storia d’iniziazione, di formazione, di tentativo di andare incontro a una vita diversa e lontana, sospesa – com’è – tra naturali paure adolescenziali e quelle ben diverse, dominate – tema ricorrente, come una scissione, come una smarginatura, come un dolore violento di presa di coscienza di sé – dal terrore della pazzia. La ricerca di un sé che si trascina dietro l’indolenza prima, la stanchezza poi, di uno scontro sempre e ancora una volta violentissimo – a tratti quasi bolañesco – col diverso.

Ricomporre amorevoli scheletri non è solo una finestra sulla letteratura boliviana così poco presente a queste latitudini; è un’immersione – di là dai temi trattati – piacevolissima: questo incontro/scontro con la memoria, con il dolore, con l’ineluttabilità del ricordo si fa momento quasi necessario, specchio delle proprie fragilità e, insieme, ci ricorda come la letteratura abbia sempre a che fare con qualcosa che, ricomponendo le fratture, si avvicina alla cura dell’altro, all’amore che consiste nel restituire a ciascuna vita la propria goccia di splendore.

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