Le inseparabili: la novella ritrovata di Simone de Beauvoir

La prima volta che ho letto Simone de Beauvoir avevo venticinque anni e della scrittrice francese non sapevo niente. A lei sono approdata da sola, con l’intuito, gironzolando tra gli scaffali della Feltrinelli sul corso di Salerno, un pomeriggio invernale di un giorno qualunque. Fui chiamata da Memorie d’una ragazza perbene: è bastato sollevare il libro dallo scaffale, sfogliarlo, leggerne qualche pagina per finire dritta dritta nel racconto delle esperienze dell’autrice. L’autobiografia, le novelle, il celebre romano I mandarini, il saggio Il secondo sesso hanno marcato un confine nella mia formazione, nella mia crescita come donna e come lettrice. Dopo Dacia Maraini, Grazia Deledda e Oriana Fallaci, lette da ragazzina, facevo spazio a una voce autoriale nuova, europea, che si soffermava sulle difficoltà per una donna di dire “io”. Nessuno mi aveva parlato di lei, ma l’ho trovata lo stesso, al momento giusto. È stato uno svelamento, una confessione.

Per questo, quando ho letto che Ponte alle Grazie avrebbe pubblicato una novella inedita della De Beauvoir, non ho esitato a leggerla, appena disponibile. Le inseparabili (traduzione di Isabella Mattazzi) è uscito lo stesso giorno in Francia e in Italia. Il manoscritto giaceva da qualche parte, in mezzo ai fogli della scrittrice, che aveva cercato a suo tempo, senza riceverla, l’approvazione di Sartre per pubblicarlo. È stata la figlia di Simone a volere che la storia romanzata dell’amicizia di sua madre con Elisabeth Lacoin (la famosa Zaza, per chi ha letto l’autobiografia della scrittrice) fosse pubblicata e diffusa tra i lettori. Nel libro l’alter ego di Simone è Sylvie, mentre quello di Zaza è Andrée. Sylvie e Andrée si conosco da bambine, a scuola, in un ambiente pregno di cattolicesimo e formalismo. Sylvie è silenziosa, cerebrale, abbastanza contenuta. Andrée è un’esplosione di energia e insurrezione, la più intelligente della classe.

Le chiamano le inseparabili, è l’inizio della loro sorellanza, di un legame decisivo. Sylvie prova ammirazione per Andrée e fa di lei il centro della sua crescita, alla maniera di Lenù e Lila ne L’amica geniale di Elena Ferrante. E proprio come accade in questo romanzo, i ruoli che le due piccole assumono nella novella si sovvertono con la crescita. Sylvie, che da bambina esisteva solo accanto ad Andrée, si svincola dal suo sguardo, facilitata da un contesto familiare poco ingessato e più fluido rispetto a quello dell’amica. Andrée è schiacciata dalle pretese della madre e del suo rango borghese. Nel percorso che dovrebbe condurla a diventare una donnina perbene, timorata di Dio, senza alcuna aspirazione personale e possibilità di innamorarsi, Andrée si perde. Resta schiacciata dall’impossibilità di tenere insieme l’affetto per la madre invadente e la sua personalità creativa, poliedrica, irruente. Questa collisione è la condanna a morte di Andrée, che sfiorisce davanti agli occhi increduli della sua migliore amica, diventata una donna critica, studiosa, risoluta.

Simone de Beauvoir è stata ossessionata tutta la vita da Elisabeth Lacoin: anche se il referto medico ha individuato in una encefalite la causa della sua morte, la scrittrice è sempre stata convinta si fosse trattato di un cortocircuito emotivo letale, una specie di omicidio spirituale, perpetrato goccia a goccia, subdolamente, dalla famiglia di Andrée. “La tomba era ricoperta di fiori bianchi. Oscuramente capii che Andrée era morta soffocata da quel biancore. Prima di prendere il treno depositai sopra quei mazzi immacolati tre rose rosse” racconta Sylvie nel riavvolgere il nastro degli eventi. È lei la narratrice: assume su di sé il punto di vista della scrittrice che con la metafora dei fiori esprime il suo pensiero sulla tragedia che ha investito l’amica.

Il libro non è solo un modo per Simone de Beauvoir di rievocare Elisabeth, eterna ragazza e anima in pena. Le pagine sono anche una testimonianza: nei primi anni del Novecento l’esuberanza femminile era vissuta come una colpa, una febbre da debellare. La madre di Andrée vede in Sylvie una minaccia per i programmi che ha in serbo per la figlia perché si accorge che cresce a briglie sciolte, libera, non intenzionata a conformarsi. Sylvie rispetta i tentativi dell’amica di conciliare i suoi bisogni con le aspettative della famiglia, le sta accanto e le offre il suo supporto ma non può nulla contro la debolezza di Andrée, determinata dall’abbandono del suo centro. Questo è il nucleo della storia, il punto centrale della lettura: Andrée rinuncia a seguire la sua indole per non ferire la madre, per non darle un dolore, ma ci rimette la pelle. Non si può essere altro da sé: Andrée ci prova ma sta male, soffre di frequenti mal di testa, dimagrisce, non mangia, non dorme, fino all’epilogo.

Simone de Beauvoir non ha fatto che ricordarci il peso della femminilità, la responsabilità e la fatica che comporta essere donne consapevoli. Sylvie, come fa anche Simone nella vita reale, si oppone alle pretese dei suoi, prova a trovare la sua strada, a seguire le sue pulsioni. L’anticonformismo diventa per la de Beauvoir una strategia di sopravvivenza e di avvicinamento all’altro, un approccio, una componente del pensiero, qualcosa che avrebbe fatto bene anche a Elisabeth.

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