La voce di Arooj Aftab

Il nuovo album di Arooj Aftab cattura al primo frammento d’ascolto. Merito della sua voce, una voce dove si sente riverberare il bel canto d’Arabia di un’artista di origini pakistane che vive a Brooklyn – una voce così speciale che potremmo definire quello che fa un melting-indie-pop sui generis, un viscerale calderone di raffinatezza capace di conquistare subito l’orecchio, in special modo con un album decisamente fresco e diverso com’è Vulture Prince. Dopo gli esordi e i primi due album, al terzo disco Arooj Aftab sembra aver portato la sua ricerca su direzioni ancora più sofisticate, come se lo sperimentalismo degli inizi avesse trovato una traiettoria, qualcosa che dona un’aura speciale alla sua musica di diaspora. Già dall’apertura del disco con Banghon Main sentiamo le radici di Arooj Aftab venire fuori genuine dal canto prelibato e dall’arrangiamento minimale del brano, qualcosa che esplode con forza brutale nel pezzo centrale del disco, Mohabbat, canzone dedicata al fratello scomparso. Arooj Aftab pare quasi crogiolarsi nel dolore della perdita, che si libera micidiale attraverso quel modo di affusolare le parole che solo una vecchia melodia araba potrebbe permettere. C’è dolore, c’è vita, e ci sono macerie capaci di trapassare il tempo: Mohabbat è un lungo canto di addio arruginito dai suoni dal sapore di primavere perdute, un grido dipanato e cadenzato di strazio; Mohabbat è il punto preciso in cui Arooj Aftab si lascia andare a tutta la sua classe che combina tradizioni, connette culture e mondi in un maelstrom infinito.

 

Una delle cose veramente interessanti che Arooj Aftab porta dalla tradizione araba è il ghazal, brevi componimenti poetici che riescono a vibrare su questo speciale modo di cadenzare un folk minimale e potente, quasi versificatore. Questa immersione nella cultura araba crea un bellissimo punto di contatto, un ponte immaginario tra la voce di Arooj Aftab e gli scantinati newyorkesi. Così un pezzo delicato e bello come Last Night è un adattamento di una poesia di Rumi, mistico e poeta persiano, che occhieggia al reggae – pur non volendo essere reggae. Nel disco c’è una continua tensione tra il desiderio di riappropiarsi delle proprie origini e la voglia di sperimentare e sconfinare, mettere insieme diversità – la poesia araba, gli studi jazz, gli incroci melodici – come in un unico grande shaker che mescolando riesce a far comunicare gli oltre-confine: il risultato è un viaggio spaziale con momenti di perdita di orientamento. Per tutto Vulture Prince sentirete il dolore di Arooj trapiantarsi sottopelle: è il dolore della perdita improvvisa di una figura importante come quella di un fratello, una figura che fa da tramite di connessione di universi, uno speciale fantasma che aleggia per tutto il disco come eroe sbiadito e prepotente. Arooj Aftab riesce a esorcizzare il dolore nel canto come si faceva una volta coi vecchi canti di liberazione blues. Vulture Prince è un disco affascinante, da sorseggiare a poco a poco, e la voce di Arooj Aftab una delle scoperte musicali più belle che vi può capitare sottorecchi in questa prima parte del duemilaventuno.


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