Scomporre Hemingway e trovare l’uomo

Paolo Giordano, Roberto Saviano, Alessandro Piperno. Cos’hanno in comune questi tre scrittori? Antonio Franchini è la risposta, editor di Mondadori quando scoprì i loro testi nei primi anni Duemila. E il titolo La solitudine dei numeri primi? Fu sempre lui a sceglierlo, mentre il titolo dell’allora venticinquenne Giordano era Dentro e fuori dall’acqua.

Un uomo si trova a dover affrontare tutte le paure della sua vita durante una corsa della figlia; Francesco Esente ripercorre il fiume in canoa per onorare lo spirito dell’amico scomparso; un vecchio lottatore sale sul ring un’ultima volta e, con la certezza ineluttabile della sconfitta, riscopre il prodigio del combattimento. Cosa accomuna i protagonisti di questi racconti? La sconfitta, il timore della morte e l’illusione di poterla aggirare. Il vecchio lottatore e altri racconti riflette sui timori più ancestrali dell’uomo contemporaneo, attraverso un quadro frammentario e frastagliato di racconti.

Antonio Franchini per oltre un ventennio è stato direttore editoriale della narrativa italiana per Mondadori. Ha lasciato il colosso milanese nel 2015 per passare a Giunti. Come scrittore ha pubblicato per Marsilio Quando vi ucciderete, maestro? (1996), Acqua, sudore, ghiaccio (1998), L’abusivo (2001), Cronaca della fine (2003), Signore delle lacrime (2010) e Memorie di un venditore di libri (2011). Per Mondadori è uscito Gladiatori (2005). A dieci anni dalla sua ultima pubblicazione, Franchini è tornato in libreria con Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani (NN Editore, 2020), con cui è entrato nella cinquina del Premio Bergamo.


Dieci anni. Perché così tanto tempo tra Memorie di un venditore di libri e la sua ultima pubblicazione? Quando nasce il progetto di questi racconti postemingueiani?

Hanno una radice comune, ma genesi diversa. Io normalmente ho tempi di elaborazione abbastanza lunghi, le stesure sono più veloci dell’elaborazione, l’unica spiegazione possibile è che mi sento più editore che scrittore. Correggere è una parte essenziale del processo della scrittura e io amo più leggere e correggere quanto ho scritto che scrivere. Quella del racconto, poi, è una dimensione narrativa che permette di essere letta e riletta e quindi posseduta.

Perché Hemingway? Questa raccolta di racconti si configura come un omaggio, un confronto o un indizio che vuole lasciare al lettore?

Il rapporto di Hemingway con il realismo e la lingua è un’eredità preziosissima, costituisce una sorta di precedente che cerca sempre una sorta di confronto. Hemingway, inoltre, ha vissuto in un mondo in cui le dimensioni della scoperta, della novità, dell’avventura, avevano un significato vergine, nel senso che Hemingway parlava di corride, di luoghi che raccontava lui per la prima volta, vedeva cose con occhi nuovi. Dopo Hemingway, l’approccio è cambiato. La dimensione dell’avventura, del combattimento dopo di lui è difficile viverla allo stesso modo. Lo stesso concetto di esperienza è modificato. Hemingway segna uno spartiacque per la letteratura dell’esperienza, o dell’inesperienza per usare un termine caro al mio amico Antonio Scurati.

« Il problema delle Leonardiadi non sono le gare, le gare sono emozionanti. Il problema sono i tempi morti. I tempi morti sono un problema sempre, sono il problema della vita, ma senza tempi morti la vita sarebbe un soffio. »

Caratteristica comune dei protagonisti di questi racconti è la fragilità, se non la sconfitta. Eterni sconfitti alla ricerca di ossessioni per ingannare il vuoto, consapevoli di un destino ineluttabile. La condizione umana descritta tra queste pagine è specifica dell’uomo contemporaneo o riflette una condizione universale?

Credo sia una condizione universale. I miei personaggi teorizzano la bellezza della sconfitta, ma io sono ben lungi dall’essere, non dico l’inventore, ma uno dei pochi cultori di questa idea. Il concetto del beautiful loser è una creazione americana, ma anche giapponese, appartiene a una dimensione universale. E poi una cosa è certa. È più facile celebrare la sconfitta della vittoria, nonostante Pindaro.

Questo libro è stato pubblicato a settembre 2020, tra un’ondata pandemica e l’altra. Come ha vissuto i mesi del lockdown, considerando che molti scrittori non sono riusciti a prendere la penna in mano, Lei è riuscito a trovare l’oro nel buio pesto di quei giorni?

Ho scritto, ho lavorato parecchio. Quella del lockdown è stata un’esperienza complessa, ma non ho vissuto un trauma. Anzi credo che i giovani siano stati i più penalizzati, io appartengo a una generazione che ha sofferto meno le chiusure, perché può accettare l’idea di stare a casa. I giovani no, è quasi contro natura.
In Italia emerge la tendenza a non valorizzare appieno le forme brevi di scrittura, come il racconto, altrove invece stimato e apprezzato, anche al Nobel. Solo dieci raccolte di racconti dal 1947, anno di istituzione del concorso, a oggi si sono aggiudicate il premio Strega. Eppure la tradizione della prosa italiana nasce con la novella di Boccaccio e continua fino ai racconti di Moravia, Nove, Magris. Come spiega questo pregiudizio?
Credo che alla base ci sia un problema economico, commerciale. Non è un pregiudizio teorico, il racconto appartiene alla tradizione italiana forse più del romanzo, ma i dati parlano chiaro. Le raccolte di racconti vendono meno. Un lettore comune preferisce immergersi in un altrove, ma uno solo, una sola storia. La raccolta di racconti spinge a tuffarsi ogni volta in un mare diverso, il lettore invece preferisce nuotare nelle stesse acque. Io, però, nonostante questo, ho sempre sostenuto l’importanza del racconto e come editore ho pubblicato alcune raccolte di racconti molto notevoli tra cui Tu, sanguinosa infanzia di Michele Mari, Il male naturale di Giulio Mozzi, Fango di Ammaniti, Shaw150 di Antonio Pennacchi, L’angelo di Coppi di Ugo Riccarelli…

La solitudine dei numeri primi ha scandito una tappa decisiva nella storia del romanzo di formazione italiano. È entrato a far parte del canone, è già un classico a distanza di poco più di dieci anni. Come è finito nelle sue mani il manoscritto di Giordano, all’epoca uno studente di fisica venticinquenne?

Il libro di Giordano mi arrivò tramite la redazione di Nuovi Argomenti. L’impressione che ebbi leggendo quel testo è stata quella di trovarmi di fronte a un grande scrittore. Spesso mi viene attribuito il merito di aver scelto il titolo di quel fortunato romanzo, ma la citazione era già dentro il libro, io l’ho solo estrapolata. Giordano era riluttante solo perché se uno convive con un titolo per un po’ inevitabilmente si abitua a quel titolo.

Lei ha lavorato di recente sull’ultimo romanzo di Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021). Teresa Ciabatti è stata una delle prime a notare che ci troviamo di fronte a «una nuova generazione di narratori e di narratrici incredibili. Jonathan Bazzi, Giacomo Mazzariol, Mattia Insolia, Fuani Marino, Josephine Yole Signorelli, Giulia Caminito. Sono persone che hanno fatto fare un passo avanti non solo alla letteratura, ma anche alla società, all’Italia». Anche Lei è convinto che saranno queste le voci letterarie del futuro? Vede davanti a sé un gruppo omogeneo e compatto o tante voci diverse senza un punto di contatto?

Siamo di fronte a un panorama complesso e variegato. Vedo rispetto al passato molte voci individuali. Fino agli anni Settanta, la narrativa italiana si muoveva per tendenze. I movimenti letterari egemoni si sono sfilacciati, oggi emerge una maggiore complessità e frammentazione. Quella che fa il suo esordio in questi anni è una generazione che ha tanto da dire, da raccontare. Una rabbia, una fame diversa. Poi i temi comuni non mancano, penso all’identità di genere, all’idea della fluidità che si sta affermando.

È più difficile esordire adesso rispetto a ieri?

Probabilmente esordire oggi è più facile, ma è più difficile emergere e durare. Gli esordi sono troppi, il mercato è invaso da titoli destinati a finire nell’oblio. Rimanere, questa è la sfida. Resistere alla voracità del tempo che non si limita a effettuare una selezione naturale, ma vorrebbe annullare tutto. I tempi moderni hanno la memoria corta.

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