Il Consenso di Vanessa Springora | Un j’accuse allo scrittore pedofilo

È il 2018 quando un gruppo di cento donne francesi invia una lettera al quotidiano Le Monde. Nella lettera-manifesto, esprimono preoccupazione nei confronti di un crescente neo-puritanesimo francese, reo di una presunta sanificazione delle relazioni sessuali tra uomo e donna. Come sostenuto dall’attrice Catherine Deneuve, la più famosa tra le firmatarie del manifesto «per il diritto a importunare», il timore è rivolto alla crescente influenza di norme sessuali moraliste d’importazione statunitense, che male si adattano con il mode de vie francese, più incline al flirt e alle sue zone grigie, o così dicono. Infatti, in quel momento la Francia sta assimilando l’ondata del Movimento #MeToo nel discorso nazionale, con la creazione dell’hashtag #BalanceTonPorc (#DenunciailPorco) da parte della giornalista Sandra Muller, la prima donna francese a denunciare pubblicamente con l’hashtag il direttore televisivo Eric Brion per molestie sessuali. Muovendo l’accusa di creare una ghigliottina che dal virtuale si trasferisce al pubblico diventando giustizia sommaria, Deneuve e le altre profetizzano l’avvento di un effetto domino d’ingiuste esecuzioni spettacolarizzate e l’instaurazione di un clima totalitario, dove anche il semplice flirt è passabile per molestia. Seppure in molti abbiano plaudito il contenuto del manifesto, lieti che fossero delle donne a ribadire a voce alta l’assurdità che un tocco al ginocchio, un bacio rubato o il discutere di argomenti intimi durante una cena di lavoro – tutto senza previo consenso – fossero da considerarsi violenza o molestia sessuale, la risposta dagli ambienti femministi è presto arrivata, fornendo una contro-narrazione atta a decostruire la presunta vittimizzazione e auto-privazione di agency della donna nell’era del #MeToo così come preconizzato dalle firmatarie. Uno dei commenti più eloquenti è quello pronunciato dalla femminista Caroline De Haas, che scrive che la lettera al quotidiano francese le ha ricordato il collega imbarazzato o lo zio fastidioso che, confusi, non hanno idea di cosa stia succedendo.

Dopo una prima fase di accesa polarizzazione, al dibattito pubblico sul #MeToo e le sue rivendicazioni ha fatto seguito un più mite plateau. Sebbene quando si parla di spazio pubblico spesso si sottenda lo spazio occupato dalle celebrità (quello che, per ragioni di visibilità, ha reso il #MeToo popolare non con la sua fondatrice Tarana Burke, ma con l’attrice Alyssa Milano), è impossibile negare l’effetto di scossa sull’opinione diffusa che alcune mobilitazioni all’interno dell’industria cinematografica francese hanno ottenuto.

Tra gli episodi più recenti, c’è la polemica scoppiata lo scorso febbraio in seguito all’assegnazione del premio César come migliore regista a un altro darling dell’industria cinematografica con decine di testimonianze di abuso sessuale alle spalle: il regista Roman Polański. In quell’occasione, l’attrice Adéle Haenel ha lasciato la sala, insieme alla regista di Ritratto della giovane in fiamme Céline Sciamma e ad altre, battendo le mani e dicendo davanti ai giornalisti: «Vive la pédophilie, Bravo la pédophilie» (Viva il pedofilo, che bravo il pedofilo). D’altronde, fuori dal luogo della premiazione una folla si era radunata per protestare la nomination del regista di origine polacca, fra cui diversi collettivi femministi, tanto che in seguito alle numerose polemiche Polański aveva deciso di non presenziare alla premiazione, per tutelare la sua incolumità e assicurare il normale svolgimento della serata – così ha affermato.

La reazione si inserisce nel quadro del cospicuo numero di denunce per violenza sessuale a danno del regista, che è tutt’ora sotto inchiesta dalle autorità americane con l’accusa di «relazioni sessuali illecite», avvenute nel 1977 con Samantha Geimer, che allora aveva solo 13 anni. Oltre a Geimer, nel tempo sono undici le donne che l’hanno accusato di molestie e violenza sessuale.

Inoltre, la stessa attrice Adéle Haenel ha subito abusi sessuali quando aveva solo 12 anni, a opera del regista del suo primo film, Cristophe Ruggia. Gli abusi sono continuati nei tre anni successivi: baci sul collo indesiderati e continui palpeggiamenti, con lei inerme sul divano.

L’elemento ricorrente nei casi di violenza a danno di minori è la modalità di risposta dell’aggressore, soprattutto se si tratta di un personaggio famoso e dunque ipervisibile: Ruggia ha smentito le accuse, ma ha ammesso di averle fatto da pigmalione con i malintesi che ciò può generare, sostenendo di non avere compreso quanto le speranze e l’ammirazione che nutriva per lei potessero risultarle dolorose.

Facendo un passo indietro, l’anno scorso uno scandalo letterario scuote nuovamente la Francia, portandola a un faccia a faccia con i suoi spettri nazionali rispetto alle tematiche della violenza di genere, ovvero la pubblicazione dell’anticipatissimo Le consentement, tradotto in Italia come Il consenso di Vanessa Springora (uscito per La Nave di Teseo lo scorso marzo), che ha venduto ventimila copie in pochi giorni. Questa volta l’aguzzino non è un regista ma uno scrittore, sempre forte di una posizione di potere e influenza nel panorama intellettuale francese dagli anni Sessanta: Gabriel Matzneff, nel libro nominato come G..

Il consenso è il primo libro di Vanessa Springora, editrice classe 1972, ed è la confessione in forma di memoir del rapporto che l’ha vista coinvolta a soli 13-14 anni con lo scrittore, quando questi ne aveva 50.

Conosciutisi a una cena tramite la madre di lei, che lavorava nell’editoria, Matzneff adesca la tredicenne Springora manipolando le sue vulnerabilità (un padre che l’ha abbandonata, una madre volubile), plasmando il discorso intorno a lui a suo piacere, utilizzando arbitrariamente il linguaggio a suo favore circa il tema del consenso, dell’abuso sessuale, della pedofilia. Un glossario che sfugge a Vanessa, troppo giovane e intrappolata nella morsa del mostro adulatore, destabilizzata dal fatto che nessuno intorno a loro si stupisca della situazione. Tuttavia, nel caso di Matzeff non c’è mai stato un disvelamento della maschera del mero scrittore affermato: che fosse un pedofilo e che avesse rapporti sessuali con minori, ragazzini e ragazzine, era noto a tutti; non a caso la risposta immediata della madre di Springora quando questa le annuncia che si stanno frequentando è: «Ma non lo sai che è un pedofilo?».

E infatti, il fil rouge del corpus letterario Matzeffiano è proprio l’eros che lo attrae a minorenni, dai dieci fino ai sedici anni, come testimoniato nel suo saggio-manifesto I minori di sedici anni, dove scrive, come riportato nel memoir di Springora: «ad attrarmi non è tanto un sesso in particolare, quanto la giovinezza estrema, quella che va dai dieci ai sedici anni e che mi sembra essere, ben oltre ciò che si indica di solito con questa formula, il vero terzo sesso». Non è fiction la sua, è realtà e autobiografia: nei suoi romanzi e diari pubblicati, Martzeff rivive le sue ossessioni erotiche ed efebiche, l’unico elemento finzionale è quello della sua immagine abilmente costruita di seduttore irresistibile, e a sua volta uomo adulto sedotto da ninfette e ninfetti a cui regala piacere, senza dubbio alcuno circa il loro consenso. La scrittura diventa l’alibi per giustificare le sue ossessioni.

Il j’accuse che Springora rivolge con questo memoir non si limita né a Matzneff, che non ha mai fatto mistero del suo essere pedofilo e avere abusato di minorenni dai dieci ai sedici anni (dalla Francia ai bambini vittime del turismo sessuale tra Filippine e Thailandia), né alla madre che non le ha offerto protezione, ma a una cultura del silenzio in nome di una presunta libertà sessuale – professata con militanza anche da figure come Roland Barthes, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre –, di cui l’élite letterario in cui Matzneff viene elogiato è prodotto diretto. Infatti, questa malsana normalizzazione della pedofilia dello scrittore, nota a tutti nell’ambiente dell’epoca, ha riportato in auge un dibattito sulla lotta contro la reclusione dei desideri promossa aggressivamente dalla generazione del Sessantotto, tra le cui fila oltre ai già citati comparivano anche Gilles Deleuze, Louis Aragon e André Glucksmann. Alcuni di questi intellettuali alla fine degli anni Sessanta lanciavano petizioni e scrivevano lettere ai quotidiani con l’intento di promuovere la depenalizzazione dei rapporti sessuali con i minori o l’abolizione dell’età del consenso, limite al desiderio interpretato come una forma di repressione che andava abolita. Sebbene un mea culpa generale sia stato poi pronunciato da questi intellettuali, riconoscendo la problematicità nei rapporti di potere e consenso fra minori e adulti, la loro posizione va contestualizzata in un momento storico che mirava a difendere il libero godimento di tutti i corpi in nome della rivoluzione sessuale, anche quelli dei giovani; un clima culturale perfettamente compiacente per uno scrittore come Matzneff.

Ragionando a ritroso sul rapporto morboso con Matzeff, Springora ricostruisce il percorso a tappe della violenza subita, con cui battezza i nomi dei sei capitoli del libro: La bambina (1), La preda (2) La presa (3), Il rilascio (4), L’impronta (5), Scrivere (6). Intrappolata nel ritratto grottesco e distorto che Matzneff fa della loro relazione nei suoi libri, emerge allora il desiderio di appropriarsi della propria storia, raccontare l’abuso e il trauma che ne sono derivati, liberandosi dall’aura di ninfetta tentatrice in cui era stata ingabbiata dallo scrittore nei suoi libri. Se il linguaggio è un terreno di caccia, Springora mira a intrappolare in questo memoir il suo cacciatore.

“Scrivere significa ritornare a essere protagonista della propria storia.
Una storia che mi era stata confiscata da tempo.”

Nell’auto-narrazione Matzeffiana, lui diventa la vittima e la quattordicenne Springora la colpevole, la Lolita seduttrice. È il meccanismo tipico dei predatori sessuali: la proiezione della colpa sulla vittima e l’assoluzione persuasiva e assoluta della propria.

La lezione impartita dal #MeToo e da Il consenso di Vanessa Springora è che, al contrario delle fiabe, l’orco non è un esule ai margini della società, temuto e tenuto a distanza da tutti. L’orco è il tycoon di Hollywood, è il presidente americano, è il grande scrittore francese osannato dalla critica – è l’uomo col potere, il centro nevralgico intorno a cui tutti orbitano. L’orco è l’uomo che si autoassolve dalle sue colpe e si dichiara sempre innocente. Più di tutto, la società non rigetta l’orco, ma spesso in cambio di un quid compromette se stessa e sacrifica terzi in un tacito accordo di complicità.

È questo il paradosso del caso Matzeff: l’apparente rapporto illogico tra un’ipervisibilità della colpa e dell’abuso, e l’invisibilizzazione della stessa davanti alle autorità. Springora decide di raccontare la sua storia quando, nel 2013, Matzneff è stato insignito di un altro riconoscimento – il prestigioso premio Renaudot –. Ma se i rei cercano rifugio nell’invisibilità della colpa e nella visibilità dell’artista-genio, il libro di Springora ha spinto la procura di Parigi ad avviare le indagini contro Matzneff per stupro di minori di 15 anni, reato che potrebbe avere commesso anche all’estero. Lo stato d’eccezione dello scrittore francese sembra finalmente sgretolarsi: la casa editrice Gallimard ha ritirato dal commercio il suo ultimo libro, e il ministro della Cultura francese sta prendendo in considerazione come muoversi rispetto alle onorificenze e la pensione di indennità concesse a Matzneff. Mentre ci si interroga sulle ipocrisie e complicità di case editrici che, consapevoli delle sue azioni di cui non faceva mistero, hanno distribuito le sue opere finora, Il consenso di Vanessa Springora ci rivela che a emergere non è un neo-puritanesimo dilagante, ma la voce delle vittime che si riappropriano delle loro storie squarciando il silenzio in cui erano state confinate.

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