La fedeltà verso di sé nelle vite nascoste di Terrence Malick

“…for the growing good of the world is partly dependent on unhistoric acts; and that things are not so ill with you and me as they might have been, is half owing to the number who lived faithfully a hidden life, and rest in unvisited tombs.”

George Eliot, Middlemarch, 1874

Presentato al Festival di Cannes nel maggio del 2019, A Hidden Life, nono lungometraggio del leggendario regista texano, sembra quasi essere la chiusura di un cerchio che riporta indietro le lancette del suo cinema al periodo precedente The Tree of Life. Se il film con Brad Pitt e Jessica Chastain poteva considerarsi, nella sua magnificenza, quasi un testamento spirituale e registico del cineasta americano, è altrettanto innegabile come, invece, le tre prove successive – To the wonder, Knight of Cups e Song to Song – avessero mostrato segni più o meno consistenti di stanchezza. Avevamo già scritto che il post Tree of Life era stato caratterizzato – pur in presenza di soluzioni filmiche brillanti e di grandi movimenti di camera – da un uso del montaggio esasperato, da un’assenza (o da una confusione) di trama e dialoghi, da un certo vuoto, dunque, nonostante – o forse a causa – di un eccesso di temi trattati che soltanto il consueto stile provava, almeno in parte, a controbilanciare.

Con A Hidden Life, invece, Malick sembra davvero tornare ai fasti se non del folgorante esordio (l’incredibile accoppiata de La rabbia giovane e de I giorni del cielo) a quelli de La sottile linea rossa che, a vent’anni di distanza dal film precedente, esplorava gli orrori della guerra. Se lì la battaglia di Guadalcanal del 1942 funzionava da fondale davanti al quale mettere in scena una moltitudine di attori e protagonisti e da pretesto per interrogarsi sulla natura del male, nel nuovo film Malick riduce in maniera sostanziale gli elementi del racconto, ancorandosi – fattore imprescindibile nello sviluppo e nell’esistenza stessa del film – a una storia vera che, in un confronto quasi inevitabile per un regista da sempre ossessionato dal tema del male, è legata al periodo del male assoluto per eccellenza, quello del dominio nazista sull’Europa degli anni trenta.

A Hidden Life racconta la storia di Franz Jägerstätter (l’attore tedesco August Diehl) che nel 1938 fu il solo abitante di Sankt Radegund – piccolo paese dell’Oberösterreich – a votare, prima, contro l’Anschluss (l’annessione austriaca al regime del Terzo Reich) quindi, a rifiutare di arruolarsi nelle fila naziste con la conseguente condanna a morte eseguita il 9 agosto 1943 tramite ghigliottina.

Quello di Malick è il racconto della vita semplice di un uomo di campagna, del rapporto simbiotico pieno d’amore con la moglie (Valerie Pachner) e le figlie, della devozione verso la madre e della fede – come anche il tormento – dell’uomo cattolico. In questo quadro idilliaco, la sua colpa sarà di riconoscere – solo tra i tanti – l’orrore che le SS portano con sé; l’incombere della minaccia nazista è mostrata, sì, attraverso il materiale di repertorio in bianco e nero dell’epoca – che Malick ha il merito di montare con deciso piglio autoriale – ma, soprattutto, attraverso la deriva sempre più estremista e intollerante della comunità che, come una tenaglia, si stringe intorno al protagonista.

Tra riprese mozzafiato delle Alpi austriache – la fotografia è affidata a Jörg Widmer – e quadri di suggestiva bellezza bucolica, Malick mette in scena il progressivo allontanamento dall’umana società di un uomo che prova a essere fedele ai suoi principi e che deve fronteggiare, non solo il senso di colpa verso la propria famiglia e il peso di un destino che appare – da un certo momento in poi ineluttabile – ma, anche, le pressioni di tutti coloro che provano, per buona o cattiva fede, a fargli cambiare idea: dalla moglie costretta a subire ogni sorta di ostilità, al sindaco che vive il suo rifiuto come un tradimento alla comunità e alla patria, dal prete cui si rivolge e che riconosce in lui un’ostinatezza cristiana da cui è sedotto e turbato, al cardinale presso cui cercherà di intercedere fino a una pletora di avvocati e gerarchi del Reich.

Franz non solo non vuole combattere ma, secondo una forma assoluta di obiezione di coscienza, si rifiuterà anche di prestare servizio negli ospedali militari del regime – ultima opportunità che gli verrà proposta quando il destino del Reich inizierà a conoscere le prime crepe – allontanando da sé la possibilità di ogni minimo compromesso col regime nella piena consapevolezza che nemmeno l’amore per la sua famiglia possa compromettere la fedeltà ai suoi ideali.

Con A Hidden Life, Malick – dicevamo – torna a un cinema più classico tanto nella storia, semplice e lineare, quanto nella messa in scena che, pur avvalendosi delle nuove tecnologie e del suo nuovo modo di filmare non ne fa mai abuso, riportando tecnica e stile a servizio dell’opera e del racconto e non a sua ragione d’essere, realizzando, così, un film che – nonostante le sue quasi tre ore – scorre senza alcun intoppo.

A Hidden Life è sorretto dall’interpretazione magistrale quanto asciutta di August Diehl sul cui viso espressivo si dipana, lungo il corso del film, lo spettro delle più contrastanti emozioni umane e che relega certamente in secondo piano le apparizioni di attori più noti – Matthias Schoenaerts, Michael Nyqvist, Tobias Moretti – fino a reggere il confronto in una scena intensissima e teatrale con l’immenso Bruno Ganz, qui alla sua ultima apparizione sul grande schermo.

A Hidden Life trova il suo senso più alto nella domanda che aleggia per tutta l’opera e che non può trovare risposta se non nel giudizio o, meglio ancora, nella sensibilità di chi lo guarda: fino a che punto si può spingere la fedeltà alle proprie idee, quanto si è disposti a sacrificare per non cedere al male, quanto la scelta di un singolo può ripercuotersi su quelle di un’intera comunità, quanto è alto il sacrificio di colui che rinuncia a tutto nella vita con la consapevolezza – sarà ripetuto più volte nel corso del film – che delle sue scelte non resterà alcuna traccia?

Di Franz Jägerstätter traccia ne è rimasta – la diffusione del movimento Pax Christi negli USA, l’impegno di Daniel Ellsberg contro la guerra in Vietnam, fino alla beatificazione ad opera di Benedetto XVI nel 2007 – ma a fronte di questo ricordo comunque labile all’interno del variegato universo cattolico – Malick è bravissimo nella misura con cui – non insistendo troppo sulla questione della fede, né tantomeno ostentandola – consente che le scelte del suo protagonista siano slegate da una questione religiosa per condurle su quelle più universali, e per questo più facilmente riconoscibili, dell’etica.

A Hidden Life diventa così un film importante che inchioda lo spettatore e lo costringe a una riflessione – più che mai necessaria in questi tempi non nuovi certamente, ma di sicuro esposti alle intemperie di nuove angosce e nuovi interrogativi – sulla fedeltà che si deve a se stessi, sul peso delle proprie scelte, sulla necessità di un umanesimo che sappia allontanare opportunismi ed egoismi, sulla possibilità per ciascuno di noi di definire – prima ancora che con gli altri – negli spazi a uno stesso tempo angusti e sconfinati della propria coscienza, tutto ciò che si nasconde dietro la parola uomo.

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