Alle radici dell’hip hop napoletano | Intervista al rapper ShaOne

C’è un televisore anni 80 che cripta le trasmissioni di MTV destinate alla Nato. Un disco della Gatta Cenerentola. Un tavolo rosso, circolare, con un ragazzino che disegna rapidissimo il futuro: trenta anni di rap nel tempo e nell’incantesimo di un giro intorno al tavolo. Un casco da astronauta attaccato alla sua tuta porta in giro e custodisce la volontà di rovesciare con la forza di un moderno archetipo una realtà che ha smarrito il senso e la direzione.

La realtà, la sua rappresentazione, va guardata con gli occhi dell’appeso, la carta dei tarocchi. Se non fosse che troppa gente è distratta, la guarda attraverso lo smartphone”.
Tra antropologia, magia, musica e lingua l’artista, writer, rapper, attore teatrale, ballerino di brakdance e pioniere dell’hip hop napoletano ShaOne – due album -battistrada con La Famiglia e una serie di collaborazioni che vanno da Neffa a Gragnaniello, passando per il maestro Roberto De Simone – si racconta a L’Indiependente.

Tu sei stato il primo a Napoli, trenta anni fa, a portare l’hip hop, diventando un riferimento per altre generazioni. Come hai mosso i primi passi in questo tipo di cultura, con quale scena musicale napoletana hai dovuto confrontarti all’inizio e come è cambiata la scena da allora?

Io ho iniziato negli anni ‘’80 quando ancora non c’era niente. Ho visto le prime cose grazie a immagini provenienti da oltreoceano: MTV, che ancora non esisteva in Italia, dava il segnale per le basi Nato. Canale 21 criptava il segnale, io la notte ero sveglio e vedevo queste cose. Cominciai a capire cosa c’era intorno a questa forma artistica che aveva in sé 4 discipline: writing, breaking, djing e il rap. Non c’erano realtà come adesso, il confronto era più difficile. Si era più soli, ma l’amore per la musica portava a superare le difficoltà: non ti preoccupavi della diffusione, la priorità era esprimersi per poi confrontarti con gli altri e crescere insieme. Il gruppo della Famiglia è stato in principio l’insieme di tre gruppi, ecco il concetto di famiglia, perché teneva in sé varie realtà, poi siamo diventati io, Polo e Dj Simi. Noi abbiamo mosso i primi passi nello stesso luogo dove altre realtà poi sono cresciute e hanno espresso un’identità forte, negli anni Novanta: gli Almamegretta, i 99 Posse. Al Notting Hill a Piazza Dante si organizzavano jam in cui esprimevamo quella che sarebbe diventata una new wawe.
Oggi la scena napoletana è forte, riconosciuta, a differenza del passato meno sommersa.

Come si è trasformato l’hip hop con il digitale e il progredire della tecnologia?

L’hip hop è aggregazione per strada, è in piazza che si forma la grande crew, la grande famiglia. I social hanno determinato un nuovo modo di relazionarsi. In origine c’è il cerchio che ti protegge, che è un retaggio magico ancestrale di ogni popolazione: la piazza, l’agorà sono l’estensione di un’azione tribale dove c’era il capo che al centro del gruppo, spesso sotto un albero, raccontava. Dal digitale, dai social, viene fuori una visione unidirezionale: si è davanti a uno schermo e si perde la percezione del resto; mentre noi, prima che come musicisti, in quanto essere umani, dovremmo avere la percezione d’intorno. Il rap si è sviluppato come un sasso gettato in uno stagno: una condivisione comunitaria come cerchi che si allargano, concentrici. L’”evoluzione” digitale è la proiezione di se stessi, del riscontro negli altri di un percorso comunque unico e individuale : io metto sul mezzo, con facilità scarico una base, poi mi registro una cosa, la metto sul network. Sul network hai l’impressione che la tua notorietà si espanda ma resta tutto in quel mondo. Il contenuto vero, più profondo non arriva. Molti ragazzi non hanno la percezione del suono che gli sta intorno. Se io sono con te e ho la presenza, ascolto te però ho anche la presenza di ciò che accade intorno. Essere coscienti della presenza vuol dire essere vivi ed essere di aiuto ad altri. Con l’mp3 si è abbattuto tutto quello che c’è intorno. Prima avevamo il dolby surround, la musica a questi ragazzini arriva tutta in faccia. E’ un’operazione che addormenta i sensi.

Cosa ne pensi della diffusione della trap?

Ne ho visti di percorsi e di stili nel tempo, non è altro che un andamento, un percorso che sta facendo il rap, è una tendenza. Io non ho niente da ridire sulla trap americana e nemmeno con gli italiani, ma sotto-sotto è un ragionamento commerciale.

Il successo del fenomeno Liberato, legato soprattutto al mistero sulla sua identità, può essere la spia del fatto che la musica non basta più a creare interesse nella società digitalizzata, che occorrono valori aggiunti per destare l’attenzione? Qualche settimana fa tu hai dato vita a una sorta di performance legata all’uscita del tuo nuovo singolo “Strummolo”, camminando vestito da astronauta per le strade del centro storico. L’underground napoletano ha capito qualcosa che sfugge ancora al resto d’Italia?

Io non mi sento underground, faccio quello che so fare in fede, poi le classificazioni vengono dopo e sono di altri. Il mio intervento è frutto di un’idea che avevo già da anni e c’è un messaggio che ho inteso significare, al di là della promozione del singolo, inerente proprio al bombardamento di input della società digitalizzata. Per me l’astronauta è un archetipo ormai, è presente in decine di video, spesso come figura felice o positiva. Io trovo invece sia uno perso. La mia camminata per i vicoli era quella di un’astronauta che non sa di essere nello spazio, cioè in questo spazio. Rappresenta l’uomo tecnologico che si distacca dal semplice vivere per inseguire traguardi che restano irraggiungibili. Quanto ci stiamo allontanando dalla solitudine, quella utile, per questa tecnologia di telefonini, di app che governa il nostro mondo? È come se questo astronauta fosse stato proiettato oltre il limite ed entrato in un wormhole, dove si trova in multirealtà. Non trova un melting pot di culture, ma confusione e alienazione.

Che tipo di relazione si stabilisce nell’attuale America di Trump tra un movimento culturale e musicale che affonda le sue radici nel Bronx dell’emarginazione sociale e della rivendicazione creativa dell’orgoglio afroamericano e un Presidente che si è mostrato opaco rispetto a episodi di violenza di KKK, neo-nazisti e suprematisti bianchi?

Potrebbe essere una buona risposta sul campo a una tendenza che prenda totalmente un’altra strada. Ha senso in quanto avvalora tutte le cose che ci siamo detti: rimpossessarsi di un luogo, la piazza, per confrontarsi dal vivo su temi di interesse comune. L’hip hop è un movimento culturale che ha portato tanti buoni frutti: dal writing è venuta la street art, dal rap tante sperimentazioni su un altro tipo di musica, dalla breakdance nuove forme di ballo. Ci sono cose: le sue derive, la morte di Tupac, le sparatorie e le gang che appartengono all’umano vivere, ma in generale l’arte si oppone alla violenza , la smonta con la bellezza.

Sono passati cento anni esatti dall’ottobre rosso e i 99 Posse già nel 2000 ironizzavano sul fatto che essere comunisti non è più trend. Nei tuoi testi, soprattutto nelle collaborazioni con Daniele Sepe, c’è lotta di classe. In una società in cui la gente lavora gratis e l’età pensionabile guadagna l’aldilà a chi si indirizzano ormai certi messaggi? Qualcuno li ascolta?

Quella con Daniele Sepe è tra le collaborazioni fondamentali, con un artista che mi fregio di avere come amico. Ho avuto la possibilità di dire cose di argomento sociale e politico che in genere io affronto in altro modo, le prendo da un altro lato. Daniele nei suoi lavori scoperchia le cose e fa bene. Io temo sempre che tutto rientri in un gioco in cui le cose vengono macinate e spariscono.
Per me trasferire concetti culturali e politici vuol dire cristallizzarli in chi ascolta, passarli attraverso metafore e allegorie per non perderne la potenza. Dire le cose, nominarle, gli fa perdere di forza. Ma al di là delle scelte artistiche, di questi tempi è fondamentale far passare determinati messaggi: i diritti sociali sono sotto attacco ed è bene esserne consapevoli.

Tu dicevi che non ti senti underground. Ma per corrispondenza di gusto e sensibilità alcuni generi e artisti incontrano un pubblico più ristretto, e così purtroppo i messaggi che si tenta di inviare. Come invertire la tendenza?

L’underground si muove nel sottosuolo e viene fruito da pochi perché mantiene in sé una scintilla di verità. Nel caso del rap esprime un’originalità, una matrice originaria: e rispetta dei canoni, ha una sua identità che rispecchia una verità. Il commerciale abbassa il tiro per poter ampliare il raggio di azione. Ognuno è libero, ma è indiscutibile che seguire il gusto imposto dalle major è piegarsi, vendersi al mercato. L’underground deve continuare a essere se stesso, gli artisti a portare se stessi oltre, poi ognuno risponde a quello che fa. A me basta la forza e serenità di poter dire quello che penso. Hai fatto la tua scelta, ciò non mi impedisce di dire liberamente: bravo, guadagni tanti soldi, per me la tua musica fa cagare, va tutto bene, hai fatto la tua scelta, la tua musica è una merda ma ok.

Antropologia, magia, lingua: ascoltandoti non si può non pensare all’influenza di una città come Napoli e al maestro De Simone, con cui hai collaborato.

Abbiamo una realtà fortissima, viviamo in una caldera, siamo materia alchemica in una terra di acqua e fuoco e non ne siamo consapevoli. Abbiamo una persona di riferimento, Roberto De Simone, che può aiutarci a conservare memoria storica e reale cultura e non la valorizziamo. È un genio, molte delle cose che so e che ho capito le devo a lui, è assolutamente oltre. Eppure viene considerato poco. Dico solo: genio. Le prime cose che ho scritto le ho scritte con lui. A me non interessa il grande successo perché so che il mio percorso non lo cambierei. I miei, quando ero ragazzino, avevano un tavolo circolare rosso. Ricordo che iniziai a sognare di rap e scrittura con una penna e un foglio tra le mani. Non sapevo cosa sarebbe successo, ma feci il giro di tutto il tavolo, un’azione magica, pensando a tutto quello che avrei potuto fare scrivendo con il rap. Pensai anche al maestro De Simone. Avevo un disco della Gatta Cenerentola e stavo scrivendo i miei futuri trent’anni di carriera. Un giorno, anni dopo, lui mi ha chiamato per collaborare, ma io non ho mai forzato il destino. L’immaginazione crea la realtà in cui viviamo, come diceva Shakespeare.

La lingua che usi nei tuoi testi è un napoletano nobile, conservi il meglio della tradizione e lo mischi con lo slang, la parlesia: è una lingua colta e viva, per niente stereotipata. Perché è così difficile portare Napoli fuori dallo stereotipo?

Quella dello stereotipo è un problema dovuto a tanti anni di ignoranza e di prevaricazione degli stessi napoletani rispetto al cuore vero della città. Lo stereotipo del napoletano che si sente nelle pubblicità, al cinema o a teatro è terribile. Anche dal punto di vista della tradizione: mi sento più vicino al teatro di Viviani che di Eduardo. Il teatro di Viviani è un teatro popolare, mentre quello di Eduardo è borghese. Eduardo ha preso il napoletano e l’ha dato in pasto a un’Italia che voleva sentire il napoletano. Non discuto il valore artistico, ma il suono della sua lingua ha risposto a una richiesta nazionale, favorendo il cementarsi dello stereotipo. Pino Daniele resta un artista indiscutibile che ha fatto delle cose bellissime , eppure nei suoi primi testi compaiono parole di napoletano antico molto belle, come la “currea”; dopo anche la sua lingua si è stemperata, anche lui si è un po’ allineato all’aspettativa deformante del napoletano. Per me, senza pretendere di fare paragoni assurdi, la lingua ha valore e funzione dantesca: suono, ritmo e messaggio. È magica.

Possiamo dirlo che Dante ha flow?

Certo che ce l’ha.

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