Gli Alt-J e la rivoluzione della normalità

Hey Boy Hey Girl dei Chemical Brothers, scenografia super-minimal, luce bianca e sfondo nero, strumentazione essenziale ed ecco che sul palco del Mediolanum Forum di Assago, sabato 12 novembre, ci sono proprio loro: gli Alt-J. Sono trascorsi ben dieci anni da quando il trio indie rock britannico debuttò live nel nostro Paese, con il suo primo disco, “An Awesome Wave”, ottenendo subito un clamoroso successo di pubblico e critica grazie alla mescolanza di indie, rock, pop, elettronica e folk, ed oltre sette anni da quando Joe Newman, Gus Unger-Hamilton e Thom Green calcarono proprio il palco del palazzetto milanese. Eccoli di nuovo qui, nella cornice del Forum, pronti a trasportare il pubblico – un pubblico enorme – in un’atmosfera unica, magica e al tempo stesso reale, normale e al tempo stesso rivoluzionaria.

Sono le 21.15, partono le prime note di Bane, dall’ultimo album “The Dream”, il quarto in studio, uscito lo scorso febbraio; da un lato la seducente chitarra di Joe, dall’altro le lampadine bianche appese a un filo e… comincia il viaggio. Oltre venti pezzi in scaletta e appena un’ora e mezza di concerto, sì sì appena 90 minuti in totale, o poco meno, sufficienti per un live super intenso in cui la band di Leeds ripercorre l’intera carriera. Se gli oramai classici Tessellate, Matilda, Something Good, per fare dei nomi, sono una certezza per i fan più affezionati, l’ultimo album è di una bellezza sconvolgente che quasi stupisce gli spettatori. È così che U&ME, Chicago, Philadelphia, sapientemente alternati ai tradizionali citati su, incantano tutti aprendo una vera e propria porta sul mondo intimistico degli Alt-J, porta che è lo spettatore stesso a decidere se aprire solo un pochino per lasciare spazio all’immaginazione o se spalancare per immergersi in toto in un universo fatto di sfaccettature a volte impercettibili, che solo i più esperti saranno in grado di cogliere, altre super energiche da non poter sfuggire a nessuno. Proprio a nessuno, né al pubblico del parterre che si agita animosamente, né a quello sugli spalti, un po’ più composto e assorto ma non meno coinvolto.

Passato, presente e futuro si mescolano in una dimensione unica come se coesistessero, celebrando da un lato – come sottolineato anche da Gus Unger-Hamilton in uno dei pochi dialoghi con il pubblico durante il live – i dieci anni dall’uscita del primo album, e immergendoci, dall’altro, nella forza magnetica del presente e anticipando quasi il futuro, un futuro un po’ incerto. “Do you know where you go?”, come ascoltiamo in The Gospel of John Hurt. Ma attenzione non c’è tempo per essere catapultati in una spirale di abbandono, parte Fritzpleasure e il pubblico si infiamma, balla, salta, applaude. Del resto come restar fermi di fronte a tanta carica esplosiva e immersiva? Il caleidoscopio di luci, colori e suoni fa il resto e ci avviamo alla chiusura. Non si può però andare a casa senza i bis e la fine vera arriva con Left Hand Free, quell’ “improbabile” successo che la band aveva composto in appena mezz’ora e con Breezeblocks, autentico cavallo di battaglia. Bene, gli spettatori possono ora tornare alla normalità? Ma no dai, altrimenti i nostri Delta (Alt + J) della musica cosa l’hanno rivoluzionata a fare la normalità?!

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