Alt-J – Relaxer

Sono entrato in possesso quasi magicamente, e non certo per le mie abilità da hacker, di un materiale ancora grezzo, da pre-mix, fatto di volumi sfasati e suoni lontani della precisione con cui lo ascolto ora, ma che diventa utile per comprendere a fondo la dedizione degli Alt-J per i particolari e i vari elementi musicali. Lo abbiamo già detto e pensato più volte in questi anni, di come la direzione intrapresa fosse lontana dai caratteri di An Awesome Wave e abbiamo provato a capirla e, forse, siamo riusciti pure a farla nostra. Nel 2014 fu difficile accettare This is All Yours e il suo cammino evidentemente più triste, fra dolci praterie e scontri improvvisi con montagne di seria malinconia, da Nara e ritorno. L’estrema determinazione nel voler scoprire cosa si nascondesse dietro ci permette di scendere in profondità con Relaxer, arrivare a intercettare le piccole sfumature e incastrare un brano musicalmente più sporco, Hit Me Like That Snare col suo animo ribelle, nella cornice caotica di cui ha bisogno. Lasciarsi cambiare umore, una volta ancora, con l’arrivo di Deadcrush, richiamo tangibile, questo sì, al tono del primo disco. Di suggestioni che cambiano, di questo si tratta, ancora una volta. Superfici disconnesse che reggono insieme, nonostante qualcosa muti in loro, in coppia come i numeri binari che aprono In Cold Blood. Ma partiamo dall’inizio, come in tutti i film che girano dentro Relaxer.

 

 

Se parliamo di film è perché è in questo modo che vanno immaginate le canzoni degli Alt-J, per dargli una sostanza più o meno tangibile, o forse è solo il modo che ci riesce più facile per spiegare ciò che ci capita in testa a un’altra persona. Vocazione filmica ed estetizzante già più volte dimostrata nell’utilizzo dei videoclip ma non solo, che si fa ora sullo sfondo di un teatro, greve e impettita, con l’ampio uso di archi e ottoni della London Metropolitan Orchestra che lo studio di Abbey Road consente di registrare in presa diretta. Il tutto accompagnato dalla calda flessione vocale di Joe Newman, sempre fedele alle radici del folk tradizionale ma a gravità zero, senza peso o necessità di avere un certo tipo di ritmo per esprimere direttamente una sensazione. House of The Rising Sun muta natura conservando solo alcuni dei suoi tratti maledetti, quasi una storia della buonanotte da cantare ai bambini di Nara prima che si addormentino. Fargli scoprire la vita di un peccatore, la sua umanità nascosta e, in fondo, sedimentare l’idea che questa parte segreta possa trovarsi in ogni cosa. Ci troviamo davanti al disco più breve degli Alt-J ma anche al suo corrispondente più denso, enigmatico e mutevole, fatto di introduzioni musicali costanti, protratte nel tempo per scendere all’interno della storia, ognuna fedele a se stessa ma nemmeno così indipendente al contesto in cui si inserisce. 3WW e, poi, In Cold Blood, cinematic folk costantemente mescolato da una voce innocente, ottoni e una Casiotone che scavano piccole trincee prima del colpo di scena finale.

 

 

Lo snodo rock di Hit Me Like That Snare è una specie di crocevia, non solo per la sua posizione, ma per la pulizia che porta nel disco, separée per la canzone ostinata Deadcrush, più completa, articolata esecuzione tempestosa, per un momento di conflitto, inevitabile all’interno di Relaxer. Disobbedienti, poco inclini a lasciare coordinate fisse e a essere etichettati, gli Alt-J approfondiscono il suono fino al suo particolare più sottile, lo rendono talmente inesplicabile da raggiungere quasi una sfera di conoscenza pregressa che ce la rende amica, finché non arriva una resa assoluta davanti ad Adaline. Questa ballad malinconica ed essenziale è, in realtà, così piena, possiede le sembianze struggenti e sfuggevoli di una metropoli e le poche possibilità che lascia a rincontrarsi di nuovo, in mezzo a tutta questo continuo succedersi di cose e persone, completata da Last Year e del suo finale leggero, quasi una risposta affidata a Ellie Rowsell dei Wolf Alice, controparte diretta e non più campionata, di questi scambi continui di riferimenti e influenze che compongono Relaxer. Influenze affettive, più che di genere, di legami per cui una materia si trasforma in qualcosa di altro sotto mani esperte e, allora, anche caratteristiche tipiche della classica, come una fuga iniziale, può assumere modulazioni diverse in Pleader e oscillare in diversi toni, dall’addio, all’incontro, dalla pastorale sacra a quella più profana.

 

 

Relaxer è un disco fatto più di conferme che di delusioni. Conferme sul modo di suonare del trio di Leeds, della loro dedizione a dare una resa visiva, e sinestetica, delle atmosfere, sfruttando strumenti lontani, cori ed elettronica tutti insieme per comporre qualcosa che possa raccogliere, più che allontanare. Seduti uno accanto all’altro in queste poltrone scomode di un cinema di provincia, stiamo assistendo alla riproduzione di una pellicola che non è mai invecchiata, che ha saputo reggere il cambio del tempo e, ora, si è guadagnata una sorta di mitologia. I continui legami con la sfera ambient, per le sue dilatazioni e le grandi parti strumentali, o quelli alle marce classiche, sono solo richiami paradossali, piccole mise en abyme che non nascondono tumulti, storie intricate ma, soprattutto, la mano di chi estrae da ogni piccola molecola una parte poetica, in maniera quasi scientifica ma fin troppo umana. Relaxer parla un suo linguaggio, come fecero An Awesome Wave e This is All Yours, volerlo capire, Pitchfork permettendo, significa trovare un piccolo posto in cui perdersi, senza la spinta a doversi, per forza, ritrovare.

 

 

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