Anna Politkovskaja e il valore della verità

La mia vita è difficile, ma è soprattutto umiliante. A 47 anni non ho più l’età per scontrarmi con l’ostilità e avere il marchio di reietta stampato sulla fronte. Non parlerò delle altre gioie del mio lavoro – l’avvelenamento, gli arresti, le minacce di morte telefoniche e online, le convocazioni settimanali nell’ufficio del procuratore generale per firmare delle dichiarazioni su quasi tutti i miei articoli. Naturalmente gli articoli che mi presentano come la pazza di Mosca mi fanno piacere. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo, ricevere ogni giorno in redazione persone che non sanno dove altro andare. (A. Politkovskaja, Il mio lavoro ad ogni costo)

Dieci anni fa Anna Stepanova Politkovskaja veniva uccisa nell’androne del suo palazzo di Mosca. Il sangue sulle piastrelle, le borsine della spesa rovesciate per terra accanto a quattro bossoli e una Makarov PM, fino al 2003 in uso alle forze militari russe. Uno di quei colpi la raggiunge alla testa, togliendole la vita. Dell’assassino e dei suoi mandanti non se ne saprà mai nulla. Insabbiamenti, proiettili al polonio e minacce complicano le ricerche. Le parole non uccidono, ma feriscono quando sanno dove colpire. Avere ragione, però, serve più ai vivi che ai morti. Lo sapeva, e lo sa tuttora, l’oggetto delle critiche più feroci della Politkovskaja, quell’ex agente del KGB dallo sguardo di ghiaccio. Proprio quel Vladimir Putin il cui compleanno ricorre tristemente nello stesso giorno, a sottolineare un’ambivalenza costante, un dono di sangue per il nuovo zar. Sangue da cui prendere forze, come in un’antica leggenda balcanica, e per cui essere ammirato. Uomo di bronzo, parafrasando il Raskòl’nikov di Dostoevskij, al cui delirio della forza tutto viene perdonato. Alla camera ardente e al funerale nessun rappresentante del governo si presentò e più che una novità, fu l’ennesima conferma del fatto che la verità è un valore che non può essere mai nascosto, neppure quando si prova a farlo tacere.

La casa dei Chambulatov è povera, austera, assolutamente “minimalista”. Pareti biancastre, alcuni materassi, un tavolo. All’ingresso trovo Aminat e Albina, rispettivamente la mamma e la sorella di Timur. Aminat inizia a raccontare com’è accaduto il fatto. Verso le tre di notte sono entrati in casa loro degli uomini in tuta mimetica, alcuni con, altri senza maschera. Erano una trentina, arrivati su sei automobili senza targa. Hanno iniziato a bestemmiare come pazzi e a spaccare a calci porte e finestre. Gridavano di voler fucilare Timur sul posto. (A. Politkovskaja, È caduto dalla sedia, in Proibito parlare)

La seconda guerra cecena e lo sterminio della sua popolazione (di cui Timur, il ragazzo torturato per una notte intera è solo uno dei tanti), la strage della scuola di Beslan e il teatro Dubrovka, ma anche la Russia di ogni giorno e i colleghi che furono condannati prima di lei alla stessa fine. Argomenti scomodi e accusatori che dalle pagine della Novaja Gazeta non risparmiavano nessuno («Né ci potrà aiutare l’Occidente, che poco si cura della “politica antiterrorismo” di Putin e che invece mostra di gradire la vodka, il caviale, il gas, il petrolio, gli orsi e un certo tipo di persone» (A. Politkovskaja, La Russia di Putin) finché dalla scrivania sbagliata è arrivata la firma sulla sua condanna. Trasformare un reportage in una narrazione, che ai fatti e alle ricerche riesce a incastrare sentimenti di disperazione e oppressione, era ciò che rendeva la scrittura della Politkovskaja un manuale di umanità e, probabilmente, l’arma più forte per infrangere il silenzio. Penna affilata sì, ma quanto mai coraggiosa e acuta, in grado di capire che solo raccontando le piccole storie dietro alle grandi devastazioni si può avere la reale comprensione del tutto, e delle ragioni per cui accadono. Non esiste uno stacco fra realtà e percezione, tutto ciò che veniva visto, annotato e trascritto doveva corrispondere perfettamente alla forma destinata alla pubblicazione, in chiara opposizione con l’idealistica e malfidata stampa ufficiale di Putin, impegnata tuttora alla sua autocelebrazione e allo screditamento degli avversari politici. Nessun elemento di una storia va sottovalutato, soprattutto quando si parla della vita delle persone, vittime o carnefici che siano. La ricostruzione di una cattedrale non può escluderne le sue fondamenta, così come l’odio è necessariamente il risultato di altre forze. Questo implica, giocoforza, una struttura giornalistica multiforme, che non si limita alla descrizione dei fatti o delle biografie dei suoi protagonisti, ma va ad indagare gli aspetti più profondi che comportano certe azioni. Per lo stile della Politkovskaja questo significava indagare su vittime e carnefici in due modi diversi. Alle stragi di Beslan e del teatro Dubrovka corrispondono pagine di intensa ricerca sullo stato della Cecenia, sulle violenze e privazioni perpetrate dagli oligarchi russi sulla popolazione, non per giustificare il terrorismo ma per dargli un campo di valutazione adeguato in cui rintracciare le risposte, cosciente com’era che il confronto fra le forze non può che causare altre vittime innocenti. Lo sguardo analitico e accusatorio si ferma in favore di un’empatia dolorosa che è a conoscenza dei propri limiti quando si confronta, a posteriori, con le vittime di queste guerre forzate. Ai sopravvissuti di Beslan lascia il microfono e le pagine, alle madri in attesa del ritorno dei figli ceceni scomparsi, così come alle testimonianze dall’assedio del teatro di cui è stata fra i mediatori durante l’emergenza. Non mettere un filtro alle descrizioni del dolore non significa soltanto riproporre le vicende nella loro verità ma, soprattutto, non dare scampo ai propri lettori, troppo spesso ricevitori impigriti da notizie edulcorate e mai troppo approfondite. Risvegliarli nelle proprie case mentre tutto crolla all’esterno. Un dovere da essere umano verso i propri simili umiliati e uccisi, più che una missione. Non è più vero che ogni parte del mondo vive i suoi problemi, sembra dirci ancora oggi la Politkovskaja, e non è soltanto per internet o la riduzione delle distanze, ma in quanto parte di qualcosa di più, di una società che non può accontentarsi più di stare a guardare, ma deve agire. Solo così il giornalismo diventa narrazione e uno sguardo sul mondo e compie il suo dovere di informare.

«Quando hanno visto che non avevamo nulla i militari si sono arrabbiati moltissimo! Si sono messi a girare per casa e sono entrati nella stanza dove dormiva Timur. (…) Mi hanno gridato: “Se ci denunci, facciamo fuori tutti”. Gli sono corsa dietro. I vicini di casa avevano già iniziato a uscire, il rumore li aveva svegliati. ma nessuno poteva fare niente contro quella banda armata. Mio figlio se lo sono portato chissà dove». (…) «Inizio a raccontare al procuratore e lui, senza neanche finire di ascoltare, mi sbatte diritto in faccia: “So io che fine ha fatto. Tuo figlio è morto. È caduto dalla sedia durante l’interrogatorio, il cuore ha cessato di battere. Ho esaminato io stesso il corpo, non ha un graffio. Hanno già portato il cadavere a Mozdok”.»

Quando dieci anni fa hanno ammazzato Anna Politkovskaja lei sapeva, probabilmente, già da tempo quali mani avrebbero potuto premere il grilletto per metterla in silenzio. Anna si sentiva sola e quel proiettile è stato solo il colpo finale di un silenzio che la attorniava e la schiacciava. Lo sentiva quando arrivavano le lettere di minacce, i tentativi di corromperla o qualcuno si rifiutava di servirle il caffè. Quando nessuno le dava credito, la Novaja Gazeta rischiava di chiudere e in pochi hanno preso la sua parte. E così accade anche oggi, mentre continuano le celebrazioni al nuovo zar di Russia o le notizie sugli attacchi epilettici più che uno scandalo e un’aggressione alla dignità diventano oggetto di ironie sempliciotte. Sono tante le lezioni che si possono apprendere da ciascun reportage della Politkovskaja ma soprattutto quello per cui la verità è dura a morire, ma è anche un’abitudine che si perde in fretta, allo stesso modo in cui la libertà svanisce con una piccola e insignificante disattenzione. Anche la storia di Timur, il ragazzo ceceno ucciso dalle forze russe, ha un esito che non suona poi più così lontano.

Così il giorno seguente Aminat è dovuta andare a Mozdok. Una volta restituito il corpo di Timur, è venuto fuori che i segni di un'”acuta insufficienza cardiaca” in realtà erano: ossa di gambe e braccia rotte, ferite di coltello su tutto il corpo, numerose bruciature di sigaretta sulla pelle, segni di numerosi morsi di cani, dita di mani e piedi schiacciate e tumefatte (…) Aminat ha visto il figlio vivo per l’ultima volta il 18 marzo alle 3:30 . Ora del decesso 8:30. Dunque, sono state cinque ore di torture brutali a far cessare di battere un cuore assolutamente sano.

Aminat ha richiesto una perizia medica. Gliel’hanno negata, rifilandole in cambio i risultati della perizia ufficiale del medico legale, secondo la quale la morte era avvenuta per arresto cardiaco e sul corpo non c’era “nemmeno un graffio”.
“Soffriva di cuore?” domando a Iznaur e Zargan Adaev, vicini di casa della famiglia Chambulatov.
“Per niente” risponde Izanur. “L’abbiamo visto crescere. Un ragazzo di campagna sano. Viviamo porta a porta, nello stesso cortile: non è stato dal dottore una sola volta in vita sua… Invece è possibile un’altra cosa: che un cuore sano non resista alle torture a cui viene sottoposto. Me ne sono convinto quando mi hanno mostrato il suo cadavere”.

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