Fisica dell’oppressione: La donna gelata di Annie Ernaux

I nostri corpi sono plasmati dalle forze sociali esistenti nella famiglia, che formano il nostro carattere e determinano il nostro fato, che sarà di cercare di piacere agli altri per ricevere amore e approvazione.
– Alexander Lowen, Paura di vivere

Nei tre anni in cui ho vissuto all’estero, le conversazioni con persone appena conosciute finivano immancabilmente per dover risolvere due enigmi impenetrabili i miei interlocutori portavano. Gli uomini domandavano come sia possibile vivere in un Paese governato de facto dalla mafia, le donne chiedevano come sia possibile vivere sotto lo sguardo e le costanti profferte di uomini sessualmente aggressivi. Chiaro che anche le donne poi mi chiedessero della mafia, ma come dire, la questione passava in secondo piano secondo la loro inappuntabile prospettiva. Tale rovesciamento di punto di vista mi è tornato in mente nel corso della lunga diatriba legata all’adozione dell’anglicismo “catcalling” per definire un fenomeno – è emerso – perlopiù percepito come: a) irrilevante; b) irrilevante ma degno di nota quanto a facilità dei prestiti dall’inglese nell’attecchire sulla nostra musicale lingua, i cui parlanti mostrano oltraggiosa inconsapevolezza dell’alato valore il Sommo, lavorando sulla già mirabilissima opera dei poeti siciliani, le conferì; c) una trovata ridicola delle feminihihihi.

Poche settimane prima era uscito in Italia per L’Orma editore La donna gelata – come sempre splendidamente tradotto da Lorenzo Flabbi – e una volta in più il pensiero di Annie Ernaux – ci arrivi in differita di anni o in contemporanea – finisce per agganciarsi alla nostra più viva attualità, come trasportato da una corrente di necessità, una specie di carsismo intelligente.

«Donne fragili e vaporose, fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa che in silenzio fanno nascere l’ordine e la bellezza, donne senza voce, sottomesse: nel paesaggio della mia infanzia, per quanto mi sforzi, non riesco a vederne molte di donne così. […]
Le donne della mia vita parlavano tutte a voce alta, avevano corpi trascurati, troppo grassi o troppo scialbi, dita ruvide, volti senza un filo di belletto e altrimenti truccati in modo esagerato, vistoso, con grandi chiazze rosse sulle guance e sulle labbra».

Contrariamente allo stereotipo dominante negli anni Cinquanta, Ernaux ci presenta nelle prime pagine di La donna gelata la sua genìa di donne schiette ed energiche, «spicce, brutali, dagli scoppi d’ira incontenibili e con la tendenza a imprecare», donne che «non erano fatte per stare in casa, donne da esterni». Su tutte, spicca la madre, temperamento e pragmatismo: «Mia madre è la forza e la tempesta […]. Si porta in scia un uomo dolce e trasognato, dalla parlata pacata, con la tendenza a rabbuiarsi nei giorni alla minima contrarietà, ma che conosce un’infinità di barzellette e di indovinelli».

In questo idillio si inserisce la scuola e quindi la società, portatrice di differenze e confronto. Il ménage familiare: mamma volitiva padrona di una drogheria, papà-chioccia e ombra gentile, fa a cazzotti con le case delle compagne di classe “trappole di pulizie e manutenzioni” tirate a lucido da angeli silenziosi, cui si accompagnano uomini spesso assenti, comunque forti, archetipi intoccabili dell’azione nel mondo, dèi autoritari da adorare e servire.

Alla madre deve la precoce passione per la lettura e con essa la coscienza di un immaginario femminile tutto “mogliettine perse in stupidi sogni a occhi aperti, Madame Bovary di periferia”, un pregiudizio che a dispetto dell’esempio materno costruisce vere e proprie gabbie e specchi deformanti, grazie ai quali gli uomini proiettano la propria presunta superiorità.

« Il modo in cui ci guardano gli altri resta più potente di qualsiasi libro, e lo detesto quell’insulto maschile che recita circa “hai letto troppi romanzi. Ti fai delle storie nella testa”, pretesto paravento, usato come copertura in mille situazioni, come scusa per gli appuntamenti mancati, “no, davvero, hai un’immaginazione che guarda ».

Storie a puntate e romanzi proibiti, un gusto eccitante per avventura e parole, e la promessa, un giorno, di leggere Furore di Steinbeck. Questa è la bambina che sarebbe diventata un giorno una scrittrice, con negli occhi e davanti l’intraprendenza e i sogni di una madre che riempie il tempo di vita, non resta a casa ad aspettare i racconti di un uomo, e rappresenta un enigma per lo stesso marito. Ma ogni bambino è partecipe di un sogno di felicità, la più nutriente delle simbiosi, finché scopre la propria irrimediabile solitudine. La solitudine si sperimenta nel dolore e nel piacere: esistere è sempre coniugabile in un Io distinto, e l’esperienza di sé è inscindibile dal corpo, Io è il corpo e le sue memorie.

« Bambina cresciuta in un ambiente permissivo, con un glorioso concetto di me stessa, devo tuttavia cavarmela da sola quando si tratta di quella cosa, più calda e viva delle gambe e della pancia, che lei chiama “quartieri bassi”, facendo riecheggiare in me immagini di zone malfamate, di lerciume. Una roba sudicia, da tenere nascosta. »

Il talento di Ernaux si esprime come sempre nella densità, la capacità di rendere il peso specifico delle memorie e del Tempo, e questa fisicità è strettamente legata al rapporto traumatico con il corpo, a un sentire amplificatissimo e straziante. La conturbante presenza dell’altro è sempre uno sconfinamento, un assedio, molto prima dell’incontro che va a materializzare un destino, una necessità: l’altro deve distruggerci per liberare l’Io “congelato”, il dolore sublima nella scrittura, altro processo estremamente fisico.

Quando penso che Simone De Beauvoir ha iniziato a scrivere Il secondo sesso a quarant’anni, perché prima di allora non si era mai resa conto di come l’essere una donna avesse caratterizzato tutta la sua vita, mi torna in mente l’apologo dei pesci di David Foster Wallace. “Donna non si nasce, lo si diventa”. Ai pesci non possiamo chiedere, ma domandate a un nuotatore esperto: l’ultima cosa che si impara è a sentire l’acqua.

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