Apocalypse Now – The Final Cut: la perfezione dell’incubo

L’orrore, l’orrore!”. Il capitano Benjamin Willard (Martin Sheen) viene incaricato di recarsi in Cambogia per uccidere un folle e misterioso colonnello disertore (Marlon Brando), che nella giungla ha fondato un regno di vietnamiti guerrafondai, secondo un discutibile codice etico. Il viaggio verso la Cambogia sarà un incubo delirante, segnato in ogni tappa da incontri drogati di follia, durante il quale Willard dovrà affrontare i propri demoni.

Ieri come oggi, l’opera omnia di Francis Ford Coppola Apocalypse Now è rimasta il film che probabilmente meglio rappresenta cosa fu la guerra del Vietnam. L’idea di un valzer allegorico e allucinato tra il contesto bellico e la rilettura del classico romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, la cui gestazione coprì quasi un decennio, venne a Coppola e allo sceneggiatore John Milius nei tardi anni Sessanta, quando la guerra nel Sud-Est asiatico aveva raggiunto lo zenit. L’affidamento della regia del film passò poi di mano dal George Lucas di Star Wars a Coppola stesso, e ciò che accadde di seguito divenne storia.

Apocalypse Now (titolo definitivo di The Psychedelic Soldier della prima versione della sceneggiatura di Milius) è un film epico che intende la guerra non più racconto di morali di ferro, ma come una riflessione dirompente sul trauma spinto sul confine tra bene e male in una giungla bellissima e terribile, dove regnano lordura, droga e psicosi cotta dal napalm. Coppola imprime sulla pellicola tutto questo girando direttamente nei luoghi in cui si sono svolti i fatti (imperdibile Hearts of Darkness, cronaca documentaristica sulla catastrofica realizzazione del film diretta con amore e dedizione dalla moglie del regista, Heleanor Coppola), attua una rievocazione del fronte di impressionante realismo, gioca con i primi piani stravolti e le panoramiche mozzafiato più ammalianti.

A questo proposito è necessario menzionare la fotografia curata da Vittorio Storaro, sgranata e in grado davvero di immergerci con precisione chirurgica nella vicenda; altrettanto inventivo l’impiego della colonna sonora, dal leggendario inserimento delle Valchirie di Wagner nella scena più celebre del film, per arrivare infine a The End dei Doors, usata come innesco per il potentissimo prologo con Willard in preda agli incubi in una stanza d’albergo a Saigon.

Marlon Brando

Dopo due ore in cui abbiamo fatto la conoscenza dei personaggi più assurdi (su tutti il fanatico colonnello della Cavalleria dell’aria Kilgore, interpretato da Robert Duvall, che adora l’odore del napalm al mattino e lo elogia come profumo “di vittoria”), l’allegoria sulla follia della guerra diviene un saggio filosofico sulla devianza con l’entrata in scena del colonnello Kurtz (Marlon Brando sovrappeso e avvolto da chiaro-scuri caravaggeschi), forse l’unico personaggio che paradossalmente è rimasto davvero lucido a contatto con l’orrore bellico. Oltre il ponte di Do Lung, ultimo avamposto americano prima della Cambogia, si giunge al dominio di Kurtz, dove Willard (e lo spettatore assieme a lui) assiste a un macabro show di cadaveri e malaria che sfocia in un febbricitante finale, tutt’altro che catartico.

Le difficoltà produttive, quasi più drammatiche del film stesso, le riprese e il montaggio infiniti, la Palma d’Oro a Cannes nel 1979 furono tasselli fondamentali che andarono a costruire la mitologia del cinema di Coppola, che già aveva fatto man bassa agli Oscar con i primi due capitoli della Trilogia del Padrino. Tuttavia, proprio come il Blade Runner di Ridley Scott, pure Apocalypse Now non negherà davanti alla prospettiva del successo una natura da film sottoposto a rimontaggi che ne stratifichino le tragiche allegorie; basti pensare al finale originale che metteva in scena un bombardamento apocalittico, subito interpretato come la distruzione del villaggio di Kurtz, tagliato e modificato subito dopo le proiezioni di prova perché reputato inappropriato.

Ma se il rimontaggio più celebre è Apocalypse Now Redux del 2001, in cui Coppola ha ricucito tutto ciò che era stato tagliato dal montaggio del 1979, arrivando ad aggiungere quasi un’ora in più di scene inedite, la Final Cut del 2019 (curatissimo restauro in 4K sul negativo originale, presentato alla Cineteca di Bologna dal 14 al 16 ottobre 2019 per l’iniziativa Il cinema ritrovato prima di una nuova distribuzione) interviene ad aggiustare il tiro, e con i suoi 183 minuti di durata si colloca a metà tra la compattezza incisiva dei 147’ originali e gli excursus dei 200’ di Redux.

La Final Cut, rispetto a Redux, rinuncia alla lettura dei giornali da parte di Kurtz, alla parentesi erotica con le conigliette di Playboy e ad alcune inutili lungaggini della digressione sulla colonia francese, necessaria per comprendere la posizione coppoliana sulla dicotomia morale dei soldati e l’interventismo. Vengono mantenute invece la goliardica, anche se abbastanza inutile, sequenza del furto della tavola da surf di Kilgore e il contraddittorio entusiasmo del giovane soldato Clean (il sedicenne Lawrence Fishburne) dopo lo squallido spettacolo delle Playmate.

Per quanto l’operazione sia concettualmente superflua e non aggiunga nulla di nuovo a un capolavoro del cinema, la Final Cut cesellata fiammeggianti immagini dolenti (che il 4K rende più abbacinanti che mai) ne esce più asciutta e coesa, e l’immersione nel bad trip nella realtà del Vietnam non perde mai di tangibilità.

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