Arctic Monkeys – Tranquility Base Hotel & Casino (II)

Il nuovo album degli Arctic Monkeys ha diviso l’opinione, per questo abbiamo voluto raccontarlo attraverso una doppia recensione. Di seguito trovate i “pro”


Comprendo la delusione di una larga fetta di pubblico affezionato agli Arctic Monkeys. L’impatto con il nuovo album è stato fortemente divisivo, dopo il successo planetario di AM del 2013 l’attesa spasmodica per un nuovo album in linea con la vecchia produzione della band inglese cresceva. Ci si aspettava le chitarre sferzanti di un tempo, l’esplosione dei ritmi di R U Mine?, le dolci ballate soffuse di Mad Sounds, dalle vaghe rimembranze – meno sporche e più pop – velvetundergroundiane. La lunga pausa di Alex Turner e soci non faceva che lasciar crescere il sentimento di attesa intorno al ritorno degli Arctic Monkeys. Tra gli intramezzi il disco Everything You’ve Come to Expect con i Last Shadow Puppets del 2016, side project di Turner con Miles Kane.

Invece Alex Turner ha avuto il tempo, in questi anni, di lasciar maturare una frattura nel pubblico, che è esplosa con decisione in occasione dell’uscita di Tranquillity Base Hotel & Casino. Voleva essere uno degli Strokes, ci sussurra in un atto di confessione a cuore aperto Turner, poi ha compreso che il successo è vuoto, si è ritirato a comporre in mezzo ai suoi privati demoni, e ha tirato fuori un album che ha il soffuso scopo di riportarci direttamente dentro ossessioni che sembrano quelle di un Brian Wilson in ritiro per Pet Sounds. Se raggiungerà o meno quei vertici Turner, in questa drammatica esperienza che è la solitudine creativa, evocando mostri sacri del passato, rinunciando alla chitarre per rifugiarsi dentro uno strumento più intimista come il piano, riprendendo a tratti quei cori di voci che tanto vogliono ricordare quel disco innominato, e inserendoci anche un gusto più barocco (vogliamo dire glam?) del solito – se raggiungerà quei vertici insomma si vedrà nelle prossime prove, ma Tranquillity Base Hotel & Casino sembra già lasciarci pregustare la scommessa creativa su cui si è lanciato il talento di Turner.

Un disco divisivo, che ha già avuto il risultato di spaccare il pubblico in due parti. Così non stupisce se c’è chi (The Independent) scrive “What the f*** are the Arctic Monkeys?”, e sulle nostre pagine l’attesa dei più affezionati alle scimmiette si è tradotta in una delusione cocente che evoca spontanee stroncature. Del resto chi se la aspettava questa veste e voce da crooner di Alex Turner, chi si aspettava di sentir paragoni con un lontanissimo Serge Gainsbourg (uno degli ispiratori del nuovo corso).

Echi spaziali che vanno diretti a ripescare dai fine Sessanta e dai Settanta per ripiantarli nel ventunesimo. La ricetta della navicella spaziale che lanciano gli Arctic Monkey è quella di creare un tappeto sonoro da reconquista per il nuovo secolo, che culmina nella cavalcata di She Looks Like Fun, che fa il verso alle ultime produzioni dei Last Shadow Puppets, ma riesce pure a riportare sulla terra i Beatles più visionari, riproporre un’esplosione erosiva del miglior rock con assoli di chitarra e cambi inaspettati di ritmo. Senza dimenticare quel fantasma di Bowie che appare – trasfigurato come un grande cigno – in American Sports e nello straziante commiato finale di The Ultracheese, con un Turner in forma vocale straripante, che nell’isolamento sembra aver trovato modo di sfuggire all’ingombrante successo del pop rock, e ora si esibisce da un palco nascosto in una vera e propria critica dal deserto, da un motel alla fine del mondo.

Da questo motel Turner ci canta davvero le molteplici contraddizioni in cui siamo capitati, con testi deliranti, impregnati da immagini di un presente/futuro che si mescolano a vecchie iconografie della storia umana sulla falsariga di Father John Misty. Il tutto con l’intensa capacità scenica di un crooner, che in episodi come Science Fiction riesce anche a riproporre il brit-pop maturo di Damon Albarn. Tranquility Base Hotel & Casino è un disco ricco di contaminazioni, che mostra il talento visionario di contrabbandiere di suoni di Turner, che è stato fortunato a trovare intorno una band che ha capito il suo percorso e l’ha assecondato in questa sorta di ritiro spirituale. Così il dolce piano che a tratti ci accompagna su Batphone è come un’odissea che culla, su cui la band riesce a costruire certi vecchi suoni cari agli Arctic Monkeys. E l’apertura jazzistica di Star Treatment avrà tutto un altro sapore alla fine del disco.

Il regalo del manager della band a Turner per il trentesimo compleanno (un pianoforte) è servito ad aprire nuove strade e nuove visioni all’intero percorso artistico del gruppo, senza scongiurare le controversie in proposito. Ma è la musica la vera protagonista di Tranquillity, e questo cambio di marcia sembra lasciar presagire che questo disco sia solo un aperitivo. Chiudete gli occhi, e godetevi i nuovi Arctic Monkeys.


Exit mobile version