ASTRO Festival | La danza interstellare della speranza

Se organizzare un festival è di per sé già una scommessa, proporre una rassegna di musica elettronica in Italia di questi tempi potrebbe essere quasi ricercato sul dizionario sotto la voce “azzardi”: si veda l’esempio lampante del Radar (purtroppo) annullato un mese fa, ma anche una serie di altre date singole (penso a Nils Frahm al Fabrique) che stentano a fare sold out in location dalle misure contenute, a dispetto di quanto accade nel resto d’Europa. La risposta al perché questo si verifichi rimane un grosso punto interrogativo, che, mentre guidiamo lungo la A4, fa da contraltare alla speranza di trovare al Magnolia una risposta di pubblico quantomeno adeguata alla splendida line-up preannunciata da Astro Festival.

I nomi che sono stati pian piano snocciolati nei mesi scorsi, infatti, non sono di certo meteore, quanto piuttosto stelle affermate nel panorama dell’elettronica attuale. In cartellone c’è spazio sia per le proposte più mainstream (in senso buono) – su tutti l’acclamatissimo Jon Hopkins –, sia per quelle più votate al clubbing (Âme e Boys Noize), ma con un occhio attento anche ad alcuni segmenti musicali più di nicchia come la deliziosa sperimentazione ambient offerta dal veneziano Gigi Masin, un pioniere del genere. Il fatto poi che le stelle di Astro risplendano in una cornice allo stesso tempo tanto stimolante e affascinante – oasi tranquilla immersa nel verde – e che l’organizzazione sia gestita dallo staff del Magnolia, in un piacevole clima “familiare”, è una doppia garanzia e quasi fa dimenticare il caldo afoso che precede l’inizio dello show.

La danza cosmica si apre sul palco Proxy, con il set di Walking Shadow a fare da warm-up alle soffuse melodie del sopracitato Masin, che accompagnano come una perfetta colonna sonora il tramonto del sole. Mentre il pubblico pian piano affluisce, c’è appena il tempo per gustare un gin tonic e fumare una sigaretta in una delle aree attrezzate con sdraio prima che si accendano le luci sullo stage principale, l’Alfa, ad illuminare l’entrata di George FitzGerald. Il producer inglese, in compagnia del tastierista Mike Lesirge e del batterista Guillaume Jambel offre una performance intima ed emozionante, arricchita a tratti dalla preziosa voce della vocalist Obenewa Aboah, presenza magnetica sul palco. In un continuo intreccio tra il sound urbano della Uk Bass e la house più raffinata, spicca il talento di un musicista capace di traghettare gli animi da stati di contemplazione introspettiva a quelli di dancefloor banger in uno schiocco di dita. Ammaliante.

A questo punto lo spazio all’aperto del Magnolia brulica di gente in attesa del main event. E Jon Hopkins non delude, sfoderando un live set della durata di un’ora composto per lo più da materiale dell’album di recente uscita: un’architettura sonora complessa, in equilibrio costante fra bassi granitici ed architravi oniriche, decorata da guglie sonore di eccellenza assoluta in una bolla spazio-temporale che sembra allo stesso tempo repentina nel suo evolversi ed eterna nella sua immutabilità. Oltre all’udito, il senso continuamente sollecitato è la vista, impossibilitata a distogliersi dal tripudio di forme e colori proposti dagli abbaglianti visual che danzano dietro l’artista britannico. Ipnotizzato, il pubblico si divide tra coloro che non riescono a smettere di ballare e quelli che invece rimangono immobili con un’espressione beata dipinta in viso, ma nessuno è immune all’esperienza totalizzante che sta vivendo. Di colpo, centinaia di persone sono sintonizzate su frequenza ultraterrene.

Recuperata coscienza di se stessi (e recuperati gli amici che nel frattempo si erano persi, ognuno schiavo della propria suggestione) va presa una decisione: rimanere davanti al palco principale per assaporare l’elettronica contaminata ed eclettica di Ross From Friends o dirigersi al Vega Stage per sentire Indian Wells? Propendiamo per la seconda possibilità e ci godiamo sprazzi di un ulteriore viaggio interstellare in compagnia della creatività dell’artista italiano, improntata ad un sound sempre in bilico fra techno e downtempo. È necessaria ancora un’ora di clubbing elegantemente rivisitato in pieno stile berlinese con l’esibizione di Âme per farci rendere conto che ormai le gambe ci reggono in piedi per miracolo, ed è necessario ancora qualche cocktail per avere almeno la forza di dare un’occhiata ai set dei D’Arcangelo da un lato, e dal’altro timbrare il cartellino anche al violento set di Boys Noize, chiamato a far da suggello finale alla serata.

Gli interrogativi che ci attanagliavano durante il viaggio di andata lasciano posto, invece, nelle due ore abbondanti di ritorno in macchina, una soffice sensazione di speranza. Se da un lato nessun dubbio vi era sulla qualità della proposta musicale, con una selezione così curata di artisti dalle cifre stilistiche tanto diverse e così in grado di appagare un ventaglio di gusti eterogeneo, dall’altro anche la risposta del pubblico è stata più che soddisfacente. Inoltre, il connubio Astro-Magnolia pare decisamente funzionale ed atto a gestire un evento di queste dimensioni, palcoscenico di una realtà che, per essere così giovane, è salda all’interno di un processo di crescita continua. Ferma restando la maggiore complessità del contesto italiano, rispetto alla media europea, il risultato assume una rilevanza ancora maggiore. Quindi sì, astri e corpi celesti sono in grado di allinearsi armonici sul cielo di Milano, e noi siamo già in attesa di sapere che cosa avranno modo di raccontarci l’anno prossimo.

 

Fotografie di Alessia Naccarato

 

 

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