La citazione colta in Battiato, Contessa e Gabbani

Più volte nel corso della storia della musica “leggera” italiana è apparso chi ha voluto fare dei propri testi un’occasione di dare sfoggio della propria cultura.

Ma cosa significa aggiungere una citazione colta ad una canzone? Oppure farvi spazio per una riflessione su questo o quell’argomento?

Con tre esempi (di più è troppo di meno è troppo poco) si può rendere conto di alcuni diversi spazi in cui si colloca l’intellettualismo nella musica popolare: uno è tratto da Battiato, il secondo da I Cani, e il terzo dal neovincitore di Sanremo, Francesco Gabbani.

Franco Battiato è forse l’esempio più eccelso di mescolatore di generi  musicali popolari e alta cultura che abbiamo mai avuto nel nostro paese.

Dopo una gioventù dedicata con passione all’approfondimento delle sonorità musicali e alla loro sperimentazione in applicazioni futuristiche e progressive, Battiato approda al pop. È la sua esplosione commerciale. La Voce Del Padrone, pur con le sue vecchie bretoni e prostitute libiche, col suo senso del possesso pre-alessandrino e i suoi sistemi solari, giunge alle vette delle classifiche. L’Italia intera canta ad una sola voce di volere un Centro di Gravità Permanente sapendo e non sapendo cosa questo voglia dire.

L’equilibrio tra complessità e semplicità negli arrangiamenti, il fascino della personalità dell’autore, e il potente e legittimante stimolo intellettuale prodotto da quel disco, ne fanno una miscela eccezionale.

In Battiato la citazione colta e la riflessione seria (seppur talvolta sputata con sdegno sulla folla dei suoi contemporanei) sono parte di una personalità. Sono lo specchio costante di una cultura profonda, di una elevazione vissuta, di un percorso mai interrotto di ricerca: in altre parole, della curiosità intellettuale. La genuinità di Battiato si legge nel suo disprezzo del piacere a tutti i costi, nei suoi “odio la new wave italiana” e nei suoi “la musica contemporanea mi butta giù”; nei suoi “secoli saturi di parassiti senza dignità”.

Anche grazie all’aiuto del da poco compianto maestro Giusto Pio, la sua musica è sempre personale, originale, arrangiata e voluta, di volta in volta, al di là di ogni moda passeggera, ma guardando costantemente alla tradizione più ampia, alla musica di tutto il mondo. Ogni volta che si dice Cuccuruccuccù Paloma è come dire Orlando in letteratura: una parte è stata elevata al di sopra dell’autore che l’ha inventata ed è diventata tradizione per i grandi posteri; da prendere e sviluppare. Battiato è grande e come tale magnifica i suoi pezzi con la sua cultura in tutti gli aspetti testuali e musicali.

Niccolò Contessa, portatore romano del nome I Cani, è ormai da qualche buon anno alle vette delle classifiche indie nazionali. Eletto a posteriori produttore di nuove leve quali il celebrato Calcutta e di colonne sonore, scrittore di pezzi e arrangiatore niente meno che per Max Pezzali,  Contessa ha uno stile riconoscibile e figlio dei suoi anni. Coi suoi testi ironici e condivisi (in tutti i sensi) dalla sua generazione e col suo riproducibile sound elettropop da cameretta egli si manifesta forse come l’epitome e il pinnacolo della cultura Indie Hipster in Italia. Fratello spirituale di indefessi ironici commentatori sociali quali L’Orso o Lo Stato Sociale, egli ha come scarto sui suoi pari una spiccata abilità nel dipingere la fragilità umana. Gli sconfitti e i perdenti della macchina del quotidiano show-biz e della voglia di distinguersi, che ora per suo merito si chiama “Hipsteria”, prendono  vita e la parola nei suoi testi, in una linea che va dal Pranzo di Santo Stefano fino a Bambini Soldato attraversando tre album tutti degni di nota.

Per I Cani la citazione colta è una ragione di argomento, una mimesi narrativa. L’Hipster romano è un po’ “Pasolini e Jay-Z”, la ragazza del parco che legge Foster Wallace l’abbiamo vista, ci appartiene. La materia penetra nello stile. Non neghiamo che la ricercatezza nello sfoggio della cultura (per lo più posticcia e di facciata) sia parte integrante dello stesso movimento Hipster, ma la qualità di Contessa che lo rende superiore ai suoi pari è che dalle sue canzoni non traspare affatto che egli voglia sentirsi superiore a nessuno. Una delle chiavi più importanti per capire il movimento Hipster è capire cosa significa volersi distinguere: “se canto i miei simili con sagacia, capendoli da fuori, allora sono migliore di loro”. Questo in Contessa è assente. Egli partecipa, racconta il dolore che questa socialità “piegata alla domanda-offerta” impone ai suoi sconfitti. Quando ci parla di Scimmia vestita e origini della vita sulla terra, quando ci parla di Protobodhisattva, dell’uomo che tende all’assoluto, non è lui che ci parla, ma un personaggio a cui chiedono se vuole “il fumo o la coca”, “il culo o la fica”. Con un geniale colpo di mano, le sue citazioni colte sono rivoltate su se stesse e diventano il sintomo freudiano di qualcuno che si rifugia nell’elucubrazione sull’identità dell’uomo e della vita per non pensare alla sua grama esistenza fatta dei vizi più banali. Nei Cani la citazione colta è parte della pittura del personaggio come dipingere un accademico in mezzo ai libri o un cardinale in un santuario, appropriata e rivelatrice della sua storia e della sua identità.

Francesco Gabbani è il celebrato e pluripremiato vincitore di Sanremo dei passati due anni. La sua storia ha passato quasi tutti gradi della carriera Mainstream Italiana. Inizio alla guida della band Trikobalto, acclamati dalla critica(!), Heineken Jamming Festival, produzione discografica e poi la Kermesse. Da subito si presenta sotto il segno di un pop e cantautorato cerebrale ma accessibile, dal suono che ricordava i Subsonica e ora ricorda un certo Gazzè o un Marco Masini. Pur essendo per lo più privo di qualunque sforzo creativo sul piano musicale – e ora semplicemente di qualunque originalità, nella sua carriera può contare su alcune efficaci linee melodiche e musicali (Supernova coi Trikobalto, Amen con cui vinse il primo San Remo, la stessa Occidentali’s Karma). Gli arrangiamenti elettronici quasi senza sforzo e i testi carichi di citazioni fanno pensare che c’è davvero bisogno per qualunque scrittura poetica di essere in qualche modo marcata o insolita, pena la totale perdita di interesse dell’ascoltatore. Probabilmente potrebbe piacere agli ex-ascoltatori di Morgan a cui i Bluvertigo sembrano “troppo cerebrali” o a tutti coloro che, in generale, scorporano il messaggio contenuto nel testo dalla musica che gli viene proposta, percependo da un orecchio un buon pop ballabile e dell’altro un “Internet oppio dei poveri”, verità sacrosanta.

Quello che manca alla citazione del Gabbani per avere un vero valore è integrarsi in un processo creativo. Essa suona spesso sentita, frutto di convinzioni e di studi, ma irrimediabilmente gratuita. La scimmia (qui nuda) del saggio non partecipe di una creazione artistica elevata ma della più sterile scusa per ballare senza sentirsi in colpa. In generale il livello di analisi in cui si dice che internet fa cagare, che siamo tutti scimmie e che andare alla lezione di yoga non ci salverà è il più basso che ci sia: Panta Rei è linguaggio comune, non è più una citazione di Eraclito, checché ne dicano i più illustri giornalisti al ribasso.

Forse ancora più fastidioso è questo voler soprassedere al problema. Questo mostrare i propri simili mentre tentano di esorcizzare la loro povertà culturale con un vuoto “amen” o con un vuoto “om” sullo sfondo di una canzone pop smaccatamente ballabile e di ampia vendibilità, non è altro che proferire quello stesso “amen” e quello stesso “om”. Con buona pace di chi saluta con gioia il finale risollevamento delle sorti di Sanremo, non sarà di certo questa colta ironia, che è la figlia dell’Hipsteria, a salvarci dallo sfacelo culturale. Servirà al più a farci ballare senza sentire quel pruriginoso senso di colpa di aver ballato “Asereje” e “Dammi tre Parole” qualche anno fa…

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